Era una roccia in campo, il Capitano. E lo è ancora. Il tempo gli ha imbiancato i capelli e temprato quella bella faccia da antico marinaio, ma non lo ha cambiato dentro. Mirko Pavinato ha lo stesso spirito di quando arrivò a Bologna da Vicenza, appena ventitreenne, per costruirsi una concreta carriera da calciatore e lasciare il segno sull’ultimo grande trionfo rossoblù. Da qui non è più ripartito, firmando con una scelta di vita il legame intenso con questa città, che è diventata anche sua.
Ottant’anni festeggiati lo scorso anno a giugno, pochi giorni dopo l’altra festa, quella del cinquantenario dell’ultimo scudetto rossoblù, di cui fu protagonista assoluto guidando la squadra in campo. Da Capitano, appunto. I ricordi di quell’annata piena di colpi di scena, di quella giornata memorabile all’Olimpico, di quello spareggio per lo scudetto che sarebbe rimasto unico nella storia del calcio italiano, sono ancora vivi.
“Fu qualcosa di strano. Dopo la vittoria, restammo a Fregene dove avevamo preparato la partita decisiva, perché c’era da incontrare la Juventus in Coppa Italia. Sapemmo dell’entusiasmo in città dai giornali, ma quando tornammo l’effetto era un po’ affievolito. Anche perché, nonostante avessimo vinto lo scudetto contro tutto e tutti, nessuno allora immaginava che il Bologna non ne avrebbe più conquistati per mezzo secolo. Poi, aleggiava quel senso di tristezza per la scomparsa recentissima del presidente Dall’Ara. Appena arrivammo a Bologna, andammo tutti in via degli Scalini, a casa della signora Nella. Fu un momento di grande commozione, intenso e indimenticabile”.
Quello scudetto aveva basi solide. Renato Dall’Ara e Fulvio Bernardini ci avevano lavorato per anni, in tempi in cui l’idea di un progetto a lungo termine era ancora percorribile.
“Ricordo che nel ’61 mi voleva l’Inter. Volevano fare lo scambio con Burgnich. Ma Bernardini si impuntò, stava costruendo il “suo” Bologna e nell’equilibrio di squadra che aveva in mente io c’ero. Dall’Ara lo sostenne, non se ne fece nulla. Dal punto di vista del gioco, il massimo lo ottenemmo l’anno prima, nella stagione ‘62/63, quella del “così si gioca solo in Paradiso”. Quello per me è stato il Bologna più frizzante, più creativo. Ma perdemmo gli scontri diretti con le grandi, e l’appuntamento con lo scudetto fummo costretti a rimandarlo”.
Rischiò di non arrivare nemmeno in quel fantastico 1964. La macchina del fango tentò inutilmente di travolgere proprio capitan Pavinato, insieme a Perani, Pascutti, Tumburus e Fogli. Ma la storia del doping era ridicola, presto la verità fu ristabilita.
“Oggi sappiamo tutti come andarono le cose, e anche che fu un’operazione goffa, quel tentativo di manomettere le provette a Coverciano. Ma ancora oggi sono convinto che quello scudetto ha avuto come protagonisti non solo noi giocatori, il presidente e Bernardini, ma anche giornalisti, avvocati, istituzioni. Fu una grande azione corale, senza la quale quella battaglia l’avremmo perduta anche da innocenti”.
Ormai l’album dei ricordi è aperto, e davanti agli occhi del Capitano ripassano momenti felici, volti indimenticabili, amicizie cementate nel tempo.
“Eravamo quello che oggi si direbbe un gran bel gruppo. Al di là di certe rivalità montate ad arte, la verità è che si stava bene insieme anche fuori dal campo. Io stavo benissimo con Janich, Pascutti, Nielsen e il grande Bulgarelli. Mi manca, Giacomo. E’ stato un uomo speciale. Un campione che sapeva essere semplice, profondo, ironico, elegante. Abbiamo perso per strada lui, Haller, Furlanis, lo stesso Bernardini. Ma lo spirito di quel gruppo aleggia ancora. Il calcio mi ha dato tanto, mi ritengo un uomo fortunato. Ho incontrato le migliori ali del calcio in Italia, gente come Julinho, Jair, Hamrin, Domenghini, Frignani. Quello è un ruolo che non esiste più, nel senso puro del termine. Ma le cose cambiano, io non vivo certo di ricordi. Allora c’erano fuoriclasse assoluti, oggi certamente la tecnica di base è migliorata”.
Mirco Pavinato ha vissuto di calcio per una vita. Lo conosce profondamente, lo analizza ancora con lucidità. Ma ultimamente si sono moltiplicate le sue apparizioni pubbliche alla Unipol Arena. Stregato dalla pallacanestro, e dalla pasione per la Virtus.
“A palazzo mi ha riportato mio genero, Francesco Gazzaneo, anche lui uno che ha il rossoblù nel cuore, da ex giocatore. E la Virtus, naturalmente. Ma io la seguii per un bel periodo anche negli anni Settanta. Ero socio della sezione tennis ed ero diventato grande amico di Orlando Sirola, fu lui a portarmi in piazza Azzarita e a farmi conoscere l’avvocato Porelli, grande personaggio. Ho visto giocare il presidente Villalta… e a dirla tutta, me lo sono anche trovato di fronte in campo, da avversario…”
Calcio o pallacanestro?
“Tutt’altra disciplina. Fummo invitati entrambi a un evento di beneficenza e ce la giocammo in un torneo di bocce a coppie. Ma se devo essere sincero, non so chi fossero i rispettivi partners, né chi la spuntò. Magari se lo ricorda Renato…”
Pavinato ama il basket perché…
“La realtà è che amo lo sport, nel senso più profondo del termine. Mi piace vederlo, seguirlo. La pallacanestro è spettacolo, velocità. Seguo anche il campionato Nba in tv, ed è bello pensare che un prodotto tutto bolognese come Marco Belinelli abbia sfondato in America. E’ anche un grande richiamo per i giovani”.
Che pensa di questa Virtus?
“Che è un gruppo che si impegna, anche nelle difficoltà. E Valli è stato bravo a lavorare con questa squadra di giovani. Se giocatori di poco più di vent’anni vanno in campo e ci mettono l’anima, la voglia, e insomma si sacrificano, mandano un messaggio bellissimo a prescindere dal risultato finale. Poi, certo, se vedo vincere la Virtus vado a casa più contento…”

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