In vista del Preolimpico Alessandro Pajola è stato intervistato da Fabrizio Salvio su Sportweek.
Un estratto della lunga intervista.

Cosa ti ha detto Teodosic? Nulla. Si è avvicinato alla fine: "Hai fatto un buon lavoro", e mi ha dato la mano. Avevamo scherzato tanto durante l'anno, però, immaginando che la qualificazione all'Olimpiade ce la saremmo giocata tra noi. Diceva "Vedrai che gioca un altro al posto tuo". Gli rispondevo: "Guarda che con me non arrivi a dieci punti". Ci sono riuscito.
E adesso? Adesso, ai Giochi, il livello si alza. Nel girone abbiamo Germania, Australia e Nigeria: la Germania la incontriamo per prima, e per molti di noi sarà l'esordio olimpico, già questo la rende una partita complicata. L'Australia è piena di giocatori NBA, la Nigeria invece di giocatori grandi e grossi.
Come ne usciamo? Giocando con la mente libera, come nel preolimpico.


Cosa hai imparato da Teodosic? Sono fortunato a poterlo chiamare amico. Si interessa a me, anche alla mia vita fuori dal campo. Come giocatore, nella metà campo offensiva è un maestro. Io non sono uno che va a chiedere, in questi due anni a Bologna l'ho osservato in silenzio senza rompergli le scatole. E' lui che è venuto a darmi consigli, invitandomi ad avere fiducia quando ho la palla in mano "Attacca, crea gioco", mi dice. Si arrabbia moltissimo quando rinuncio a un tiro.
Perchè lo faccio? Sasha Djordjevic ci chiedeva sempre di cercare il tiro migliore, quello più facile. Metti insieme questa filosofia di gioco, il fatto che a me piace più servire l'assist che cercare il tiro, perchè non sono uno dalle mani fatate, e avrai la risposta alla domanda. Ora però ho imparato che quando ne hai la possibilità, un tiro va sempre preso.


Come si diventa difensori implacabili? E' un fatto di istinto. Del gioco ho sempre guardato più questo aspetto che quello offensivo. Mi intrigava chi riusciva a rubare palla, rispetto a chi faceva canestro. Mi ha sempre dato più gusto non far segnare gli altri, che segnare io stesso. Del resto non sono un giocatore da step and back, un tiratore. Sono sempre stato quello dei punti facili, fatti in contropiede in terzo tempo, da solo. Per riuscirci dovevo rubare palla all'avversario.
Il segreto per non far respirare il giocatore marcato? Cerco di capire le sue mosse qualche decimo di secondo prima, in modo da anticiparlo o fregarlo. Guardo come mette la palla a terra, come muove i piedi: se li orienta verso la linea laterale, certamente non si prepara a tirare. Da piccolo giocavo a calcio con gli amici: ero quello che intercettava più passaggi di tutti.

Fontecchio e Polonara, per emergere, sono dovuti andare all'estero. Un giocatore può cambiare da così a così se alle spalle ha la fiducia del club e dell'allenatore. E' ciò che ho visto in Fontecchio e Polonara: hanno giocato con una tale consapevolezza dei propri mezzi... Tiravano convinti che la palla sarebbe finita dentro. Io a Bologna ho avuto la fortuna di ricevere questa fiducia che mi ha permesso di giocare senza pressioni. Sono arrivato alla Virtus a 16 anni, nella stagione della retrocessione. Facevo le giovanili, ma mi allenato spesso con la prima squadra e respiravo il clima pesante che c'era. L'anno dopo siamo stati subito promossi dalla A2, quello dopo coach Ramagli, che mi aveva già fatto esordire, ha continuato a darmi fiducia. Sono cresciuto io ed è cresciuta la società con un imprenditore come Zanetti che da subito ha puntato in alto con coach Djordjevic.

Lo scudetto è stata una sorpresa? E' arrivato sulla scia dei risultati della stagione precedente prima dello stop per pandemia. A guardare quanto era forte Milano, pensavo che non ce l'avremmo mai fatta, ma Djordjevic si è mostrato il condottiero capace di guidare un gruppo pronto a ogni battaglia.

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