I 50 ANNI DELLA LBA. BULGHERONI RACCONTA L'ERA DE MICHELIS
Imprenditore di successo, prima giocatore della grande Ignis Varese che proprio 50 anni fa iniziava la sua leggenda italiana ed europea poi, dagli inizi degli anni ’80, proprietario della Pallacanestro Varese dove da due stagioni è rientrato come consigliere, Antonio “Toto” Bulgheroni ha fatto parte del “Dream Team” che sotto la presidenza di Gianni De Michelis (scomparso da un anno) ha guidato la Lega Basket dal 1984 al 1992 in un ulteriore periodo di grande crescita. Con lui nel nuovo consiglio direttivo della Lega Basket, Gianluigi Porelli come vice presidente, poi Giuseppe Viola, Enrico Prandi e Roberto Allievi che sarebbero diventati successivamente presidenti in due epoche diverse della Lega Basket. E il Segretario Generale Sandro Crovetti a gestire la attività quotidiana negli uffici di Viale Aldo Moro.
Eppure la presidenza di De Michelis iniziò con una elezione frutto di una maggioranza risicatissima: “Diciamo pure che nessuno di noi conosceva bene De Michelis – ricorda Bulgheroni - tranne il presidente di Venezia Lelli che ne aveva patrocinato la candidatura, tant’è vero che la sua elezione avvenne per un solo voto di differenza. Ma bastò poco per capire che sarebbe stata una presidenza di svolta. Ricordo che quando venne in Lega per la prima Assemblea io e Porelli andammo a prenderlo in aeroporto a Bologna e nel tragitto verso gli uffici di viale Aldo Moro rispondemmo a una serie di sue domande: lui aveva tirato fuori dal suo pacchetto di Muratti un foglietto che divise in due parti e iniziò a prendere appunti. Poi appena arrivato fece un discorso agli associati come se conoscesse il basket da una vita e impressionò tutti soprattutto perché mostrò subito di avere una visione. De Michelis era sempre impegnatissimo passando da un incarico di Governo all’altro, ci riceveva a Roma al Plaza poi noi proseguivamo nella gestione corrente grazie al lavoro quotidiano di Porelli e Crovetti e dello staff di De Michelis e della sua segreteria composta da Barone e Sutto”.
Il tratto distintivo che segnò quella presidenza fu anche e soprattutto il mega contratto televisivo di 50 miliardi di Lire per 5 anni dal 1987 al 1992 che la Lega firmò con la Rai a cui aggiungere 1 miliardo e mezzo all’anno da Telemontecarlo per una seconda diretta: “Quel contratto fu importante per il basket e il suo sviluppo: io e Porelli lavorammo alla stesura della bozza di contratto poi andammo a Roma e de Michelis trattò la parte economica con l’allora presidente Enrico Manca. Quell’introito fu la base per una politica di sviluppo, a partire dall’acquisto di un altro piano degli uffici nelle Torri della Lega al primo centro di produzione televisiva che avviammo perché circolassero sempre più immagini. Ma permise anche per la prima volta di distribuire ai club 8 miliardi a stagione, in base al piazzamento, evitando di chiedere loro qualsiasi cifra per la gestione della Lega come avveniva sino a quel momento attraverso una percentuale sugli incassi. Ma, ripeto, furono, anni frutto di grandi visioni, pieni di rapporti con le grandi aziende che entravano nel basket, con la Nba sempre più in espansione. Sfociate nella idea di Porelli di fondare nel 1991 l’ULEB, l’Unione delle Leghe europee di basket e di cui faceva parte anche un giovane Jordi Bertomeu, allora alla Lega spagnola e che poi sarebbe diventato il commissioner dell’Eurolega”.
Anche allora la necessità era sempre quella di far coincidere le esigenze dei grandi club con quelle dei club con meno risorse: sempre risolte guardando al bene comune: “Questo fu possibile anche perché nel consiglio direttivo erano rappresentate diverse anime e anche noi membri del Consiglio eravamo espressione di diversi interessi. Ad esempio il giudice Viola, presidente della società di Reggio Calabria, era portatore e garante delle esigenze delle piccole società; che esprimevano ovviamente prospettive ed esigenze diverse che venivano discusse ed affrontate sempre con una visione proiettata in avanti e uno spirito di gruppo dove tutti riuscivano a mettere da parte gli interessi particolari. Anche allora grandi e piccole era portatrici di istanze differenti ma anche le big avevano ben presente che il campionato non poteva essere solo appannaggio di due o tre squadre ma che era necessaria una forte coesione, cercando il minimo comune denominatore su cui si potesse convergere e lasciando comunque sempre ai grandi club il compito di guidare il movimento. Milano ad esempio, pur non essendo nel direttivo di Lega, aveva un ruolo fondamentale e di traino del movimento e non fu facile mantenerla nella Lega perché aveva già a quel tempo visioni ed esigenze europee che andavano oltre il recinto italiano: con Gabetti fu la prima società che propose una wild card per partecipare alla Coppa dei Campioni, al di là del fatto che si vincesse o meno lo scudetto. Una richiesta che fu contrastata perché contraria al diritto sportivo ma che poneva comunque una esigenza di fondo e cioè quella di poter programmare un futuro a medio-lungo termine per un consolidamento anche a livello europeo in quella che sarebbe poi diventata la Eurolega di oggi. L’interprete di questo difficile lavoro di sintesi era Porelli: non è mai stato presidente di Lega anche se ne avrebbe avuto tutte le doti perché aveva la forza e il carisma per portare avanti un discorso comune: ma fu scelto De Michelis perchè eravamo convinti che servisse un personaggio esterno che potesse anche essere un biglietto da visita verso l’esterno, che assicurasse ulteriore visibilità verso tv e sponsor”.
Anche sulla spinta di Milano, autoribattezzatasi la 24° squadra della Nba (a quel tempo erano solo 23), ma non solo, la Lega Basket guardava oltre i propri confini: “Ci fu il Mc Donald’s Open a Roma nel 1989, nacque un legame forte con la Nba. Jerry Colangelo, proprietario dei Phoenix Suns e uno degli owner più importanti della Nba, venne in Italia; avevamo contatti diretti con David Stern e questo era anche merito della immagine che avevamo costruito: gli ingressi di grandi gruppi come Benetton e Gardini, ad esempio, erano un biglietto da visita importante per tutto il movimento. Certo, avere De Michelis presidente apriva tante porte: se si muoveva lui si muoveva la stampa, si organizzavano incontri e convegni che erano anche una occasione di aggregazione, confronto e stimolo. Poi stava poi alle società e al movimento garantire alle aziende il ritorno che chiedevano: e noi eravamo in grado di assicurarlo”.
Un periodo storico in cui il motore trainante del movimento di vertice era la Lega ma senza che questo venisse visto in maniera conflittuale dalla Federazione, allora retta da Enrico Vinci. Solo una netta e chiara divisione dei compiti.
“Ponemmo le basi per un rapporto che delimitava bene i rispettivi ambiti - e che a mio avviso dovrebbe valere anche oggi - con la Fip che manteneva la gestione della giustizia sportiva e degli arbitri con due grandi obiettivi: la Nazionale e la promozione dello sport mantenendo una sorta di protettorato sulla Serie A a cui però lasciare la gestione del campionato e una sempre maggiore autodeterminazione”.
Il basket di Serie A a quel tempo rivaleggiava con il calcio e aveva una Nazionale che agli Europei del 1991, organizzati a Roma, veniva trasmessa in prima serata con milioni di telespettatori: un patrimonio che però non ha saputo conservare o sviluppare al meglio.
“Vi sono stati tanti fattori che hanno rallentato una crescita che pareva inarrestabile: nel 1992 De Michelis lasciò, in Lega iniziò un periodo delicato con i club che venivano sempre più rappresentati in Assemblea dai general manager piuttosto che dai proprietari e questo fu certo destabilizzante perchè alcuni personaggi pensavano più al proprio interesse che a quello del movimento. Questa tendenza si acuì, anzitutto perchè alcune grandi proprietà divennero sempre più defilate ma anche perché non vi era più un personaggio carismatico come De Michelis. Poi in questi 30 anni sono cambiate tante cose nella vita economica e politica del paese: non vi sono più persone a capo di grandi gruppi industriali, ad esclusione di Armani e Zanetti, che abbiano ancora la passione e la voglia di investire nel basket. E ora è tutto più difficile e lo sarà ancor di più nei prossimi mesi vista anche la situazione di emergenza che stiamo vivendo. Se guardo però all’esempio della Nba, prenderei qualche spunto di riflessione: quando David Stern diventò “commissioner” la Nba aveva un fatturato di 77 milioni di dollari mentre ora fattura miliardi e capisci che tutto questo è stato anche possibile anche perchè ci si è dati regole certe: dagli impianti, al “salary cap” sino alla permanenza di un sistema chiuso di franchigie che crea valore e permette di programmare nel rispetto di parametri condivisi. Questo ci dovrebbe spingere a darci alcune regole ben precise, anzitutto partendo da una urgente riforma della legge 91 e proseguendo con un sempre maggior controllo economico dei club sino agli impianti: se decidiamo che per uno sviluppo del movimento debbano avere una certa capienza e determinate caratteristiche poi si deve avere la forza per sostenere questa scelta Nella storia del basket vi sono stati club che hanno sofferto per ottemperare a queste regole, affrontando problemi e disagi in nome di uno sviluppo futuro di tutto il movimento”.