Charlie Recalcati si racconta a "Nel bosco non solo mirtilli"
Estratto da: L’Osteria del Basket – Nel bosco non solo mirtilli di Venerdì 31/05/2024
Intervista a cura di Daniele Lanfranchi e Antonio Toselli
Diamo il benvenuto a Charlie Recalcati.
Grazie, è un piacere.
Partiamo subito. Hai avuto a che fare con tanti campioni, per tanti anni. A riguardo salta sempre fuori la disputa se tu sia più allenatore o più gestore. Tu ti senti più allenatore o più gestore? Perché hai avuto talmente tanti campioni con cui spesso si faceva un po’ di fatica, per così dire, ad allenarli.
Sì, è vero, però ti devo dire che mi sono divertito molto di più con quelli che non quelli troppo lineari. Perché ti stimolano, perché ti obbligano a trovare soluzioni nuove anche dal punto di vista psicologico. Quindi la domanda è giusta, bisogna essere sia l'uno che l'altro.
Non credo che ci sia un unico modo per allenare, che sia solo gestore o solamente tecnico.
Bisogna cercare di fondere le due cose e poi, dopo, a seconda della squadra che hai e a seconda dei giocatori che hai, devi essere più l'uno piuttosto che l'altro. Però devo dire che quello che mi ha stimolato di più sono sempre stati i caratteri molto forti, quelli con cui confrontarsi e con cui dover trovare nuove risorse per capire quale era il modo per pormi.
Restiamo in tema “caratteriale”. Un sacco di anni fa, hai detto: “Ho scelto Dan Gay perché vedendolo giocare in una partita a Rieti l'ho visto per cinque minuti, in cui non gli hanno mai dato la palla, e l'ho visto difendere come un pazzo, e non lamentarsi mai”. Un esemplare unico, Gay, come giocatore, come spirito, come mentalità o ne hai allenati altri?
Unico no, perché chiaramente ci sono stati altri giocatori. C'è un retroscena, perché quando ho scelto Dan Gay lo seguivo già da tempo; lui sarebbe dovuto venire a Bergamo con me. Quando lui arrivò in Europa, Dario Santrolli, che era sua agente, lo offrì anche a me, però era un rookie e, obiettivamente, io a Bergamo avevo un certo Chuck Jura e quindi non ritenni che fosse pronto per noi. Però lo seguì nell'anno in cui andò in Olanda e fece un grande campionato. Poi dall'Olanda andò a Rieti e cosa successe? Successe che Rieti ci offrì Joe Bryant, il papà di Kobe. Io avevo già Antonello Riva. Pensare di mettere nella stessa squadra Antonello Riva, Joe Bryant e Marzorati… mi si sarebbe fuso il cervello, perché chiaramente avevo solo un pallone da passare. E quindi mi si è accesa la lampadina: visto che Rieti vuole cedere uno dei due americani, dissi al mio presidente: “allora prendiamo Dan Gay”, un giocatore capace di stare anche senza ricevere la palla ed essere utile alla squadra. Poi dopo si è confermato alla grande e ha dimostrato di essere anche capace, con la palla in mano, di fare dei punti e di essere utile anche sotto quell'aspetto.
Fortunatamente per me, altri giocatori di questo tipo li ho avuti. Mi viene in mente Dean Garrett, a Reggio Calabria, che era un giocatore molto simile a Dan. Forse un po' meno bravo offensivamente, però difensivamente e a rimbalzo era sulla stessa tipologia.
Cambiamo argomento. Fino a poco tempo fa eri senior assistant con il Poz in nazionale, come è finito questo rapporto, visto che ne abbiamo letto molto poco? C'è stato qualche screzio oppure vi siete lasciati bene?
No, non c'è stato nessuno screzio. Ci siamo visti poi, successivamente la sua decisione, perché sono andato a vedere la nazionale. È sempre stato carino nei miei confronti, come abitualmente. Quando Gian Marco mi chiese di assumere quel ruolo sapevo che sarebbe stato un ruolo a tempo... Non me l'aveva detto chiaramente, però me l'aveva fatto capire perché mi disse: “Guarda, se tu accetti va benissimo. Sappi che se tu non accetti non ci sarà nessuno al tuo posto; come pure nel momento in cui non ci sarai più tu, non ci sarà nessuno al tuo posto”. Quindi già quello voleva dire che era previsto. Io conosco e conoscevo le dinamiche della Federazione, per cui so benissimo le problematiche tra le quali il Commissario Tecnico si dibatte. Una delle quali è il fatto che la Federazione, soprattutto la Segreteria, mette dei paletti. Arriva un momento in cui deve asciugare, insomma, quelle che sono le risorse umane. In occasione delle Olimpiadi, soprattutto, ci sono delle necessità legate alla disponibilità del villaggio olimpico, dove chiaramente c'è un numero contingentato per i collaboratori. Per cui io queste cose le sapevo benissimo perché avevo avuto modo di confrontarmici personalmente.
Anch'io avevo dovuto rinunciare, magari a malincuore, a qualche collaboratore in alcune occasioni. Per cui sapevo che sarebbe arrivato. Mi è dispiaciuto, perché avrei fatto molto volentieri l'esperienza con la nazionale, e mi è dispiaciuto che abbiano messo Poz nella situazione di dire una cazzata come spesso gli capita [ride]...
Ha fatto ridere tutta Italia, no? Perché, chiaramente, nel momento in cui tu dici: “Recalcati ha già partecipato alle Olimpiadi, gli altri no...”. Il 90% delle persone che hanno sentito una cosa del genere hanno pensato che, forse, il fatto di aver fatto delle Olimpiadi dovrebbe essere un valore aggiunto, piuttosto che il fatto di non averle fatte. Però sai, il Poz è fatto così per cui... quello che gli passa per la testa in quel momento lo dice e si espone. Però zero problemi tra noi due. Tutto perfetto.
Charlie, come vedi questo campionato? Molti dicono che avere due squadre che, come ci si aspettava, arrivano in fondo rispetto alle altre, con budget diversi, porti un valore al campionato. Altri che, viceversa, dicono che sembra un'egemonia. Tu che ne pensi?
Io dico che se diventa un'egemonia dipende molto dagli altri. Credo che poi, senza andare molto lontano (non voglio andare a scomodare periodi in cui magari molti di quelli che ci ascoltano non erano neanche nati) restando sul recente, mi sembra che, ad esempio Sassari o la stessa Reyer, abbiano dimostrato che ci sia la possibilità di inserirsi. Dipende dall’essere capaci di sfruttare bene le proprie risorse, anche se, magari, sono inferiori rispetto a quelle della Virtus o di Milano. Però credo che ci sia lo spazio per tutti. Credo che quando ci sono delle squadre di vertice sono anche uno stimolo. Una cosa che io ho sempre detto.
Faccio un parallelo. Quando da allenatore dovevo incontrare Ettore Messina ero obbligato a cercare di fare sempre meglio, perché incontravo un allenatore di altissimo livello, quindi, nel momento in cui devo giocare contro le sue squadre, sapevo che dovevo essere migliore di quello che ero stato fino a quel momento lì. Questo io l'ho sempre riconosciuto a Ettore, l'ho detto anche pubblicamente.
Solamente giocando con i migliori, con i più forti, tu hai la possibilità di migliorarti e di trovare delle nuove soluzioni. La stessa cosa vale per quanto riguarda le squadre. Se poi dopo ci sono due squadre come quelle, diventano una spinta per le altre che, magari, non possono pareggiare i budget; perché è evidente che questo non lo possono fare. Però possono cercare di allestire squadre migliori, di ottimizzare al meglio le risorse che hanno, e anche per gli allenatori e per i giocatori. Il fatto di dover arrivare a competere con loro è un modo per essere costretti a migliorarsi. Per cui, sinceramente, non vedo che problema sia avere due squadre di questo genere qua se non il fatto che possono migliorare e alzare il livello del campionato.
Visto che parliamo delle due squadre di Eurolega…che Eurolega hai visto? Io credo che si stia evolvendo molto e il livello si stia alzando. È chiaro che si giocano tante partite in più, le squadre si stancano e obbligano i roster ad allungarsi. Qual è la tua analisi su quest’ultima annata?
L'Eurolega è il campionato che preferisco. Io vedo pochissima NBA, se non quando arriva nel momento clou e quindi il play off. Però l'Euroleague è una competizione che a me piace, perché si gioca la miglior pallacanestro che sia possibile giocare. È un bel livello. È chiaro che è una manifestazione che prosciuga perché ci sono tantissime partite, si gioca a tamburo battente. Ci sono delle settimane in cui le squadre non hanno neanche il tempo di respirare perché tra viaggi e partite praticamente si consumano. E questo porta ad avere dei roster lunghissimi e, chiaramente, la necessità di avere budget molto alti. Però qualitativamente questa Lega a me è piaciuta quest’anno, come d'altra parte nel recente passato.
Il Panathinaikos ha meritato?
Ha meritato il Pana, sì. Perché poi Ataman è sornione. È capace di bluffare anche un po'. Poi dopo gli va anche sempre bene, bluffa magari quando non ci crede neanche lui, però dopo le cose si realizzano. E’ un istrione. Nella partita di finale con il Real Madrid si è “intortato” l'allenatore del Real Madrid alla grande: quando gli ha schierato, con Tavares in campo, neanche un pivot e ha costretto Tavares a subire canestri da tre; lì si è spezzata la partita. Ha dimostrato davvero tutta la sua grandezza e di quanto sia capace anche di fregarsene del giudizio degli altri, perché poteva essere anche una cosa che poteva ritorcersi contro di lui, nel momento in cui gli fosse andata male. Però ho avuto ragione lui e il Pana ha meritato di vincere.
Parlando di Eurolega e di Ataman, mi viene da fare questa domanda. Ci sono un sacco di allenatori che usano molto il cronometro, guardano molto il minutaggio e le rotazioni. Ataman, in questo senso, fa un'eccezione. Ricordo che quando il Pana è venuto a vincere a Bologna c'erano quattro giocatori intorno ai 30 minuti e Kendrick Nunn addirittura ne ha fatti 36. Per lui, evidentemente, vale la logica: “giochi bene = stai in campo”, o mi sbaglio?
Sì, dicevo che è un po' fuori dai canoni. Oggi, è vero, gli allenatori usano molto il cronometro, o, più precisamente, fanno uso di un lavoro d'equipe in cui rientrano anche il giudizio e il parere di quelli che sono i preparatori fisici. Chiaramente scandiscono un po’ il tempo di gioco dei giocatori. E’ un lavoro che viene fatto di squadra. E’ giusto, nel momento in cui accetti di essere in un sistema di questo tipo, che i collaboratori che hai vengano anche ascoltati. Questo porta magari, come sempre succede, a delle esagerazioni… che si guardi il minuto.
Il minuto, sinceramente, non ha ragione di essere. Può essere che magari non sia normale, ai ritmi in cui giocano l'Eurolega, che uno giochi stabilmente 30-32 minuti. Però è anche vero che una può capitare. Magari non deve capitare la partita dopo o non è capitato alla partita prima. Credo che Ataman, da questo punto di vista, sulla singola partita, non si faccia problemi ad andare un pochino al di fuori di quelli che possono essere questi canoni.
Come vedi la partecipazione eventuale di una squadra araba in questo tipo di competizione?
Sinceramente non sono d'accordo. Capisco le motivazioni. Allora però non la chiamiamo più Eurolega. Cioè…gli cambiamo nome. Deve cambiare il nome. Perché... le motivazioni sono solo economiche, è evidente.
Poi magari sono anche un po' al di fuori adesso, e quindi magari ragiono in modo un pochino più “romantico” rispetto a chi fa delle considerazioni prettamente economiche. Io capisco, voglio dire, l'ho anche detto che la ragione può essere economica. Però, Santo Cielo, non mi sembra che in Europa non ci siano delle squadre o delle società che non possano consentire all'Eurolega di essere comunque di altissimo livello e di dare un incremento anche dal punto di vista economico, senza bisogno di andare ad attingere fuori dall'Europa.
Riavvolgiamo il nastro. Nel 2000, quando vincesti lo scudetto con la Fortitudo, era reduce da due annate finite una peggio dell'altra. Nel '99 eliminata in semifinale con la famosa stoppata di Marconato sul tiro di Karnišovas, e nel '98, il 31 maggio, esattamente 26 anni fa, la storia del tiro da quattro di Danilović. Arriva la finale e perdeste in casa contro Treviso. Credo che sia stato abbastanza complicato gestire il dopo partita, anche per quello che erano gli umori del pubblico e dell'ambiente. È stata una partita molto particolare quella lì o è stata una sconfitta normale? Come va catalogata?
No, non è stata una sconfitta normale. Ci sono state anche delle ragioni tecniche e io ne ero responsabile. Ed è il motivo per cui io, pur avendo perso la partita, sono risalito sul campo al Paladozza e ho trovato 1.500 persone.
In quel momento lì... cercando di rassicurare tutti, dissi: “Guardate che comunque andiamo a vincere a Treviso”.
Chiaramente io avevo fiducia nella mia squadra, nelle capacità che aveva dimostrato in tutto l'anno. In quella partita io mi ero fatto un esame di coscienza.
Cosa successe? Noi perdiamo Karnišovas e abbiamo cercato di recuperarlo fino all'ultimo momento. Non è stato possibile perché l'infortunio era tale che non gli permetteva di giocare. Quindi giocai quella partita cercando di trovare soluzioni nel ruolo... Cercando di non snaturare il quintetto. Poi, notoriamente, si sa che a me i quintetti molto alti non piacciono e quindi ho cercato, per esempio, di non schierare mai i tre lunghi insieme. Invece in allenamento li abbiamo provati qualche volta durante la stagione, quindi non era una novità assoluta.
Quindi io sono uscito da quella partita con la convinzione che se io avesse giocato quella gara, o comunque se avessi giocato poi nelle partite successive, schierando contemporaneamente Vrankovic, Fucka e Galanda, quella sarebbe stata la chiave per noi. E così è stato. Non ho avuto il coraggio di farlo nella prima partita, perché pensavo che, comunque, giocando in casa con la spinta del pubblico, saremmo riusciti a sopperire lo stesso all'assenza della nostra ala piccola titolare.
Lo stesso discorso che ho fatto, salendo poi sul parterre del Paladozza, l'ho fatto il giorno dopo nello spogliatoio con i giocatori. Avevamo giocato una stagione dimostrando che cosa volevamo e la mia convinzione è sempre stata quella che chi vuole vincere il campionato, e lo ha dimostrato la Virtus oggi, deve essere capace di vincere in trasferta. Non puoi contare solamente sulle partite casalinghe, perché ti può capitare di avere uno scivolone anche se hai la bella in casa.
Oppure può capitare che tu non abbia, perché non sei arrivato primo, la bella in casa. E quindi devi avere la capacità e l'abilità di vincere in trasferta. Noi questa abilità l'avevamo dimostrata ampiamente durante tutto il campionato e quindi ci siamo un pochino guardati in faccia e ci siamo un po' rincorati. Chiaro che per me era facile. Io capivo benissimo lo sconforto del pubblico e soprattutto capivo benissimo lo sconforto dei giocatori che erano passati da esperienze precedenti. Vedevano un po' ripetersi quello che era successo. Però è vero che, ad esempio, dalla mia parte avevo un intervento di Calton Myers all'inizio della stagione.
Io ero l'allenatore nuovo e loro avevano delle abitudini, tutti i giocatori avevano delle abitudini, anche i giocatori completamente nuovi dell'ambiente. Quindi ognuno ragionava per abitudini. Quindi all'inizio qualcosa era cambiato. Eravamo arrivati al punto che Gregor Fucka voleva che io gli spiegassi i movimenti per giocare a zona. Cioè, io gli ho detto: “Gregor, figurati, ma ti devo spiegare quali sono i movimenti per giocare a zona? È una vita che giochi a pallacanestro, ti devo spiegare anche questo qua?”. Eravamo a quel livello lì. Quindi prima che iniziasse il campionato, abbiamo avuto un bel confronto, dicendoci poi tutte queste belle cose qua.
Ognuno diceva: “Io sono abituato così, l'anno scorso eccetera, eccetera, eccetera”. E Carlton mi dette una grandissima mano, lasciò parlare tutti e poi disse: “Ragazzi, qui è inutile che ce la raccontiamo. Noi qui abbiamo perso solo delle finali. L'unico che l'anno scorso ha vinto la finale è lui, è quel signore lì”, rivolgendosi a me.
Per cui per tutto l’anno, e. la dimostrazione c’è stata In quell'occasione in cui dovevamo recuperare poi lo 0-1, la mentalità era quella.
Come la vedi la Fortitudo quest'anno? Ti ha sorpreso? Ad inizio anno ci si aspettava l'ottavo posto.
Si, non pensavo che arrivasse in finale all'inizio. Sono molto onesto perché era anche nel girone obiettivamente più difficile, dove c'erano parecchie squadre che, dichiaratamente, iniziavano il campionato pensando alla promozione. Nella mia testa, obiettivamente, ho sempre pensato che quando una società si sta ristrutturando, se riesce ad avere un paio di stagioni senza fare grandi voli pindarici, senza avere tantissima ambizione, ha la possibilità di consolidarsi e magari di prepararsi poi a fare il salto. Pensavo convenisse fare un buon campionato, però pensando che l'anno in cui salire non dovesse essere questo. Poi il campionato, e soprattutto i play-off, hanno dimostrato che ha le carte in regola per poterci provare. È chiaro che gioca contro Trapani, l'unica squadra che sembra che non possa sbagliare. Perché se no non si sa cosa succederà a Trapani, obiettivamente.
Due parole sui tuoi giocatori più importanti?
Ah, sicuramente Jack Galanda è stato un giocatore da prima fascia per me.
Sai, lui è stato con me a Varese, alla Fortitudo, in nazionale… È il giocatore che mi ha fatto quadrare sempre i conti, sia dal punto di vista tecnico sia dal punto di vista della gestione. Prima citavo la serie con Treviso, no? In gara due Jack mi ha giocato praticamente da ala piccola. S’alternava con Fucka tre/quattro chiaramente. L'anno prima vinco con Varese e Jack mi gioca da pivot. E quindi questo ti dice che puoi cambiare gli altri quattro e lui ti sistema il quintetto.
E poi dopo c'è tutto il discorso della gestione e della leadership di Jack nelle squadre che ho avuto. Tu devi pensare che io avevo l'abitudine, una volta all'anno, di costringere la squadra a parlarsi chiusa nello spogliatoio. Io li chiudevo dentro a chiave per 10 minuti/un quarto d'ora. Non lo puoi fare più spesso perché poi dopo perde d’efficacia. Io facevo la premessa, poi uscivo, chiudevo a chiave e li lasciavo dentro. Con Jack eravamo talmente in sintonia che fatta una volta, fatta due volte, con squadre diverse, non ho più avuto neanche la soddisfazione di decidere io quando farla. Perché era lui che mi diceva: “ho capito, è il momento di farlo”. Questo per dirti l'importanza che Jack ha rivestito nelle mie squadre, non solamente dal punto di vista tecnico, strategico, ma anche dal punto di vista della gestione. Per cui chiunque altro è dopo di lui, lui è il primo.
Poi ti racconto un aneddoto su Marko Jaric.
In Fortitudo stavamo firmando Kattash. L'avevamo praticamente firmato. Tant'è vero che io ho parlato con lo zio (parlai con lui perché Kattash era impegnato in nazionale), che mi disse: “Ho una richiesta: vorrebbe il numero 10”. E io dico: “il numero 10 la vedo dura…”. Il numero 10 era di Carlton.
Però sai, in quel momento volevo prendere il giocatore, non è che gli posso dire: “no”. Gli dico: “vedremo…” una cosa del genere.
Poco dopo ricevo una telefonata da Marko Jaric. Lui era a Los Angeles, io non lo conoscevo. Mi dice: “sono qui, mi sto allenando. Ho saputo dagli amici di Bologna che state cercando un playmaker…fate quello che volete però io volevo informarti, visto che non mi conosci, che io diventerò il miglior playmaker d'Europa.
Ah, così?
Così. Io devo dire, quando mi ha detto una roba del genere, talmente convinto, ho detto: “ma lasciam stare Kattash”. Ha convinto anche me.
Ultima domanda. Dopo le Olimpiadi di Atene, in cui abbiamo preso una splendida medaglia d'argento arrivando in finale con l'Argentina, c'era grande euforia. Però, subito dopo, tu hai detto: “Attenzione, guardando in avanti, si complicheranno maledettamente le cose”. Evidentemente avevi visto che dietro a quelli di Atene non c'era molto. Evidentemente non ti hanno ascoltato. Non ti hanno creduto?
Non mi hanno creduto. Allora, io, siccome sono capace di fare autocritica, ho sbagliato a dirlo in quel momento. A me sembrava il momento migliore, secondo il mio modo di pensare. Se devo sganciare una bomba è meglio sganciare in un momento di euforia...pensavo. Tutti sono contenti e possono magari anche metabolizzare qualcosa di negativo. Però mi sono reso conto che è stato un errore. Avrei dovuto farlo più tardi, a due mesi di distanza. Non dico che mi avrebbero ascoltato, però forse mi avrebbero creduto di più. Sai perché? Perché l'opinione di molti, e dico anche all'interno della Federazione, è stata quella che io volessi enfatizzare la nostra impresa, il nostro successo. Mentre invece io ero sincero. Pensavano che io mi inventassi qualcosa per esaltare ancora di più il gruppo. Però sai, prima di accettare il part-time con Siena, ho voluto rendermi conto di che cosa offriva il nostro movimento e ho girato l'Italia come Commissario Tecnico. Nel vero senso della parola, non mi sono limitato a telefonare. Sono stato dappertutto. Sono stato dalla Sicilia, alla Sardegna, alla Val d'Aosta, proprio per rendermi conto di persona di che cosa stavamo producendo e come stavamo lavorando.
Ho fatto raduni su raduni. Mi sono fatto aiutare da una ventina di collaboratori, in ogni regione avevo un referente che mi informava su come andavano le cose, sui giocatori emergenti, su quale era il potenziale, quali erano le risorse umane. Lo facevo direttamente, facendo, durante la stagione, raduni di due giorni, mirati a giocatori giovani e meno giovani, giocatori di serie B, giocatori di Lega 2… Avevo visto effettivamente che cosa offriva il panorama della nostra pallacanestro. Sinceramente la pochezza, nel senso di numero di giocatori di qualità che stavano crescendo nei settori giovanili, era una cosa che avevo percepito. Tieni presente che l'anno in cui andai in federazione come Commissario Tecnico, è stato l'anno in cui venne introdotto, dal Consiglio Federale, l'obbligo degli italiani a referto e l'obbligo dei giocatori under nei campionati sotto la Serie A. Io ho partecipato a quel consiglio federale. L'intento era quello di dare la possibilità ai nostri giocatori di giocare di più, pensando che l'obbligo obbligasse -scusate la ripetizione- gli allenatori e la società a farli giocare.
Dissi: “facciamo un avvio sperimentale, monitoriamola e poi tra tre o quattro anni vediamo se ha dato dei risultati”. E non aveva dato dei risultati perché, praticamente, avevamo i giocatori che andavano a referto solamente perché era obbligo che fossero a referto. E questo riguardava non solamente i giocatori italiani in Serie A ma anche i giocatori under nei campionati sotto la Serie A. La riflessione era quella che avremmo dovuto cambiare quello che era l'obbligo in incentivo, cioè trovare un modo perché le società, e gli allenatori, fossero incentivati a far giocare il giocatore italiano e fossero incentivati a far giocare i giocatori giovani. Però questa cosa qua non è mai stata presa in considerazione. A tal proposito, io avevo ereditato la squadra da Tanjevic, era la squadra che aveva vinto l'oro a Parigi. Avevamo perso Fucka, avevamo perso Myers, avevamo perso Andrea Meneghin, e direi che sono stati molto bravi i giocatori ed è stato bravo lo staff. Abbiamo trovato le risorse all'interno della squadra, perché non è che abbiamo trovato il sostituto di Carlton o il sostituto di Fucka. Semplicemente Basile e Galanda, che erano i cambi di Fucka e di Myers, sono diventati “il Myers” e “il Fucka” della Nazionale.
Io lo sapevo, perché li avevo allenati e quindi sapevo che erano capaci di poter essere protagonisti. Fortunatamente abbiamo trovato Matteo Soragna, che fino a 26 anni la nazionale non l'aveva considerato, e con lui abbiamo trovato il sostituto di Andrea Meneghin. Questo ha fatto tornare un pochino il cerchio e ha continuato a rendere competitiva la Nazionale che ha vinto l’oro a Parigi. Però era chiaro che dopo non è che crescessero poi tanti giocatori.
Dopo ci sono stati altri giocatori con delle punte di alto livello, ma io sinceramente guardavo alle nazionali che andavano per la maggiore. Io vedevo la Spagna, vedevo la Francia e chiaramente mi raffrontavo con loro. Noi potevamo avere delle punte che valevano le loro individualità, ma loro potevano fare due squadre e noi no. Un po’ quello che ha fatto la Spagna agli ultimi mondiali, questo tipo di precedenti, dove addirittura non aveva i cinque giocatori di quintetto base, poi hanno fatto comunque una squadra competitiva. È questo che a noi mancava, perché noi abbiamo sempre sofferto, eravamo sempre lì a dire speriamo che non si faccia male a nessuno, speriamo che questo non rinunci, speriamo che quell'altro...
Era tutto quello che vedevo nel nostro movimento e l'ho denunciato, sperando che “desse una mossa” nel cercare di confrontarci e trovare e trovare soluzioni. Solo che poi dopo è stata interpretata come un modo per far risaltare quello che noi avevamo fatto.
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