MI RITORNI IN MENTE: PUNTATA 1
Il ragazzino era stato abituato a vedere le partite di papà, e si era sempre divertito. Perché papà era uno di quelli che, specie nella A2 degli anni ’80, era uno di quei classici soggetti per cui “vale la pena comprare il biglietto”. Certo, non era l’uomo che ti faceva vincere i campionati, e spesso si diceva che gli eccessi di egoismo erano la causa del suo restare confinato in terre di provincia, ma intanto si viaggiava a 35 di media o quasi. Punti, non minuti. Il 27 dicembre 1987 sarebbe stato un giorno come tanti: arrivo sul campo dove giocava la Pistoia di papà, valanga di punti, divertimento assicurato e – magari – anche la vittoria. Ma il ragazzino capì fin dalla palla a due che le cose sarebbero state un po’ diverse, e gli occhi felici di chi aveva nove anni e vedeva giocare papà divennero azione dopo azione un po’ meno felici. Perché dall’altra parte giocava un signore di 30 anni, con barba, baffi, e una maglietta della salute talmente antiestetica da far pensare che ci fosse anche un po’ di pancetta, lì dentro. Ma questo signore, brutto e cattivo, si prese papà e lo ridusse al silenzio cestistico: solo 23 punti segnati, 9/24 al tiro (ed era davvero robaccia, per lui), e dall’altra parte del campo… Dall’altra parte del campo il cattivone, che portava il numero 14 della Yoga e a referto faceva Daniele Albertazzi, gliene scaraventò 36, tirando 16/20. Ma loro forse non lo sapevamo, che Albertazzi era stato ribattezzato Albert Atz dal Superbasket di Aldo Giordani, perché aveva nome da italiano e rendimento da americano, tanto che l’anno prima (quando giocava in A1 a Livorno, sponda Pallacanestro) era stato votato come miglior indigeno del campionato. E quell’anno era tornato nella sua città per aiutare nel progetto che Gambini voleva togliesse la Fortitudo dal famoso ascensore. E si vinceva spesso, così come capitò quel giorno contro Pistoia: grande festa per Bologna, considerando anche il fatto che quel giorno c’era il ritorno da ex di Leon Douglas, bandiera fortitudina fino a pochi mesi prima, ma papà e il figlio si guardarono negli occhi, alla ricerca di reciproca solidarietà.
“Forse l’Italia non è più terra per noi”, disse il genitore.
“E’ vero, e poi ti prometto una cosa. Se mai un giorno io dovessi diventare un giocatore di basket, non verrò MAI a giocare qui a Bologna, anche se per perorare la mia causa dovessero scrivere al presidente degli Stati Uniti. Papà, te lo prometto”, rispose il figlio.
“Stai tranquillo, a quel tempo ci penseremo. Ma ora, mio piccolo Kobe, aiutami a mettere le mie cose nel pullman”, chiuse papà Joe.
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