MI RITORNI IN MENTE: PUNTATA 14
Gli oriundi, ahinoi. Perché ora è facile, in una realtà dove basta poco per permettere a chiunque di avere passaporti tanto esotici quanto utili (per intenderci, lo Jacob Pullen appena preso dalla Virtus ha passaporto georgiano, ma ci risulta difficile credere che abbia iniziato a giocare nei campetti di Tbilisi. E, come lui, decine di americani nelle stesse condizioni), ma un tempo era tutt’altra faccenda. Pensiamo alle sette camicie sudate da Dan Gay, che se non fosse stato per quel tal Bosman non sarebbe mai riuscito a diventare italiano. O, andando più indietro negli anni, il fatto che George Bucci fu costretto ad un anno nelle straminors per giocare da italico. Insomma, era roba più per cavilli burocratici che altro, e anche con chiare reminiscenze tricolori nella genealogia il tutto era ben difficile da ottenere.
I nomi famosi erano quelli che, in un modo o nell’altro, hanno fatto anche la storia del basket negli anni ’80: Mike D’Antoni, che ha giocato qualche partita e vinto qualche cosa a Milano. O Mike Sylvester, anche lui non esattamente l’ultimo dei pisquani. Per passare poi al già citato George Bucci, che due o tre canestri in maglia Fortitudo li ha anche messi, o Mark Campanaro (una vita tra Reggio Calabria e Pistoia) o anche Phil Melillo, forse più valido come allenatore che non come giocatore (benchè una stagione a 27 di media, ancora giovane, se la fece). L’idea era molto semplice, quella di trovare un jolly che potesse rendere la squadra una corazzata con tre americani, anche se tra iter burocratici e altro la cosa riusciva solo quando i giocatori iniziavano ad essere avanti con gli anni, annacquando un po’ il possibile impatto. Poi chiaro, c’erano quelli che erano veri fenomeni, come alcuni dei già citati, o altri che erano più pittoreschi che non altro, o semplicemente buoni gregari e non certo al livello di chi, invece, aveva mantenuto il passaporto a stelle e strisce. Qualcuno alzi la mano se ricorda Joe Calavita, sprazzi soprattutto a Varese, ad esempio.
Bene. Nell’autunno 1989 giravano voci per cui si ipotizzava la possibilità, per le squadre di basket, di inserire al proprio interno un oriundo, magari senza tutti quegli azzeccagarbugli precedenti. E allora ci pensò anche la Fortitudo, che peraltro in quella stagione come americani non è che avesse fatto poi terno al lotto (e di Formaggione Feitl abbiamo già parlato). Così, un giorno, al Lungo toccò presentare un ragazzone di colore pescato dai Solent Stars, oscura squadra britannica, dopo aver fatto il college a Connecticut – per i feticisti, assieme a Charles Smith, omonimo di quello visto anche in Italia, bronzo olimpico a Seul - . Il suo nome era Tyrone Canino, presumibilmente nessuna parentela con quell’Alessandro che pochi anni dopo avrebbe invaso il mondo con la sua Brutta. Il soggetto, un lungo, si beccò un coro dalla Fossa, fece ciao ciao con la mano e si mise a sedere dietro la panchina di Mauro Di Vincenzo.
Se ne persero le tracce immediatamente, sia dell’idea di avere oriundi in tutte le squadre che, ovviamente, di questo Tyrone Canino. Chiunque lo avesse visto o anche solo intravisto, o avesse qualsiasi tipo di informazione su di lui, ci avverta il prima possibile.