Ivo Germano - tifoso Fortitudo e docente universitario (giornalismo sportivo, sport e comunicazione) è stato intervistato da Luca Sancini su Repubblica in merito al "brand" Fortitudo, del quale si è parlato parecchio in questi giorni tra maglie a pois, patatine e caramelle marchiate.

Ecco le sue parole.
Germano, la brandizzazione cos'è? E' la logica della fidelity card, il gadget che ti fa riconoscere dentro la comunità come un eguale. Non più tifoso, ma consumatore: di patatine, di magliette, di momenti collettivi pure oltre la partita.

Queste maglie però... Mah, a voler fare i puristi anche quelle dell'Arimo avevano lo stesso disegno. Ma cosa indossassero Gilmore e Banks, poco importava. La Fortitudo giocò pure in biancoverde, come Latte Sole. Sulle maglie si vede di peggio, pensiamo al calcio: le divise color champagne, quelle uguali agli arbitri o ai tecnici dell'Anas. Il tema non è il sacchetto di patatine, la tazza, la maglia, ma il simbolo.

Bellezza o bruttezza non c'entrano. Esatto. E' la reazione alla brandizzazione che è un processo legittimo e comunque conseguente, per una società che si muove dentro lo sport che è show e business. Ma può non funzionare, in chi ancora vuole salvaguardare un ambito simbolico. Una community non è solo quella dei clienti Vodafone, ma altro sono, nello sport, squadre che hanno tradizioni storiche così sedimentate.

Vanno lette così le magliette rigettate dalla curva ai giocatori a fine partita, o le proteste sui social? Se è forte un'identità basata su riti e miti, anche una tazza col logo della squadra può essere vissuta come una profanazione iconoclasta. Soprattutto quando la parte che dovrebbe essere simbolica non più la stessa forza di un tempo: quando c'erano Schull e Gualco le patatine vendute al Conad avrebbero generato un sorriso. Il rito, la celebrazione è ordine, qualcosa di diverso è percepito come un intruso.

Insomma, il tifoso non lo riconosci dal gadget. C'è una parte emergente di pubblico che vive anche di questo: è la realtà attuale. Poi c'è chi pensa che ci sia uno spazio da presidiare, in un mondo sempre più impersonale e anonimo: il tifo per una squadra può ancora offrire qualcosa di caldo. Ma ormai si cerca di fare del tifoso un utente, e così si finisce a pensare che se hai pubblico automaticamente vinci.

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