Sergio Scariolo a "Nel bosco non solo Mirtilli"
Estratto da: L’Osteria del Basket – Nel bosco non solo mirtilli di Venerdì 18/10/2024
Intervista integrale a cura di Daniele Lanfranchi e Antonio Toselli, reperibile al link:
https://www.youtube.com/watch?v=3AwnZI6lI9I
Ok. Allora buonasera a tutti. Puntata speciale perché c'è un ospite speciale, chiaramente. Benvenuto Sergio Scariolo.
Grazie. Ciao, ciao.
Lo dico per i ragazzi che non lo sanno, che ci seguono. Io contattai Sergio per l'altra puntata speciale che registrammo e facciamo sulla pallacanestro inclusiva, perché volevo fargli fare un intervento sulla sua fondazione. Tutti coloro che sono dentro all’ambiente la conoscono, ma non tutti gli spettatori sanno di cosa si occupa. Quindi se vuoi spendere qualche parola per parlarne ti ascoltiamo volentieri.
È una fondazione che è nata 16 anni fa, che porta il nome di mio padre, che morì di leucemia nel '98. È un modo per ricordarlo, facendo qualcosa concreto. Ha base nel sud della Spagna, dove vivo, a Marbella, e da aiuto economico, psicologico, sociale, diverso tipo. Non è una fondazione scientifica, non è una fondazione di ricerca nella lotta contro il cancro infantile, ma cerca di aiutare i ragazzi, bambini e le loro famiglie quando affrontano una di queste malattie nel corso della loro infanzia o adolescenza.
Ricordiamo che per chi vuole fare una donazione per sostenere questa fondazione c’è un sito
http://www.fundacioncesarescariolo.org/
Grazie mille. Veniamo ad altro, come te la stai passando dopo l'estate?
Ho firmato un accordo con la televisione che trasmette le partite di campionato ed Eurolega in Spagna, Movistar Plus. Continuo a lavorare come commissario tecnico della nazionale spagnola. Abbiamo dovuto fare un grande lavoro con la federazione per aprire il nuovo ciclo olimpico: è una cosa impegnativa, soprattutto quando sei in un momento di ricambio generazionale come siamo noi. Quindi un esame molto dettagliato dell'attività delle nazionali delle categorie di formazione, poi delle olimpiadi, diciamo un rinnovamento dello staff tecnico, una serie di lavori che hanno portato a una serie di decisioni che abbiamo preso per i prossimi quattro anni, dovrei essere, almeno contrattualmente, sarò alla guida della nazionale. In più, appunto, questa cosa con la televisione che mi permette di studiare le partite, invece di vederle sul divano. Magari ne vedi di meno ma ne vedi come per prepararle, come se fossi l’allenatore, quindi esaminando le statistiche, analizzando i profili dei giocatori, vedendo le partite precedenti di tutte e due le squadre e viaggiando, che è la cosa che mi piace meno. Però sono viaggi in Spagna, quindi sono abbastanza limitati nel tempo, anche se si tratta sempre di un giorno e mezzo che ti va via.
Allora a 24 anni hai vinto il Mondiale Militare, nel 1985, e nel '90, a 29 anni hai vinto lo scudetto con Pesaro. La domanda che ti faccio è questa: come è stato il dopo? Cioè, gestire ovviamente la pressione, perché quando si vince qualcosa di importante quando si è ancora molto giovani, probabilmente non è facile gestire la pressione e le aspettative che ci sono dopo. Volevo sapere come è stato il dopo, ecco.
Ma è stato effettivamente difficile, perché dopo lo Scudetto c'è stata la Final Four di Coppa dei Campioni, Eurolega. Poi l'Open di McDonald, dove arrivammo un passo da vincere con la squadra NBA, i New York Knicks. C'è una serie di cose che per un allenatore di 29 anni, debuttante, con esperienza ovviamente profonda nel settore giovanile, che non è facilissima da gestire. Quindi anche nella scelta del come continuare la mia carriera, con magari qualche decisione sbagliata, anche forse malconsigliata, a livello di voler capitalizzare il successo di quei primi due anni da capo allenatore. Però partì con grande entusiasmo poi dall'A2, da Desio, per poi andare in Fortitudo, per poi andare in Spagna, eccetera eccetera.
Allora su Pesaro voglio fare un piccolo tackle su l'anno in cui tu eri assistente di Bianchini. Poi mi dirai cosa hai appreso da Bianchini, però ho un bell'aneddoto che ti voglio riportare del nostro amico Maurizio Ferro. Diceva che una lui era in bagno prima della partita, si pettinava, si metteva gel, e diceva: arriva Scariolo che mi riprende e dice: “Cazzo ti metti il gel, Maurizio? E dice: Da quando invece Scariolo si è messo gel, ha vinto tutto in tutto il mondo. Quindi secondo lui il segreto di tutti gli sportivi è il gel.
Non bisogna mai, mai sputare controvento. In effetti, mi ricordo con molto affetto di Maurizio. Fu uno dei tanti giocatori che provammo a inserire in squadra per complementare il ruolo di terza guardia. L'idea era quella di giocare con otto o nove giocatori al massimo in cui questo giocatore che usciva dalla panchina fosse il cambio sia di Darwin Cook che di Andrea Gracis. E cercavamo sempre fra giocatori che stavano emergendo, che avevano giocato benissimo con squadre naturalmente di un livello inferiore. Quindi Silvano Motta, Maurizio Ferro, Giovanni Grattoni, Paolo Boesso. E fu difficile perché pensate che allora adattarsi, passare da essere un giocatore da 30 minuti e 15 tiri a partita, un giocatore da 15 minuti e 6, 7 tiri, era difficile. Pensate che evoluzione ha avuto il gioco quando oggi, anche con il numero di partite, onestamente, molto superiore che si gioca oggi, giocare 15 minuti è la quantità abituale per la maggior parte dei giocatori, levati i primissimi cinque magari di ogni squadra.
Sergio mi hai dato un assist, hai detto la parola evoluzione del gioco. Quando iniziasti da professionista, sicuramente c'erano moltissime meno possibilità di vedere le partite in televisione, e se non avessi potuto recarti tu, sarebbero arrivati delle cassette. Nel frattempo si è evoluto il gioco, di conseguenza i giocatori e anche gli allenatori hanno dovuto adattarsi. Ti chiedo se c'è un piccolo segreto di cui ti vanti, un piccolo dettaglio di cui ti puoi vantare, perché ci sei arrivato prima te. Un dettaglio che avevi già intuito, avevi capito, perché non ci credo che no, con tutto quello che hai vinto e come giocano le tue squadre.
Ti racconterò un aneddoto per farti capire come non si può dire l'ho inventato io. Un anno alla Fortitudo avevamo Enzo Esposito, che era un giocatore molto bravo a uscire dei blocchi per attaccare tirare da tre punti quando usciva, guardando il canestro verso destra, e invece a volte faceva un taglio a ricciolo per andare a tirare in mezzo all'area con la mano destra quando usciva a sinistra e fare questo gancio elegante che aveva. Durante l'estate abbiamo lavorato con lo staff tecnico per cercare di trovare una soluzione che lo rendesse meno prevedibile, quindi un gioco dove da quella parte finirà con un tiro, probabilmente, dall'altra con i blocchi e finirà con un ricciolo, una penetrazione E, lo dico tra virgolette, anche scherzando, inventammo la doppia uscita. Cioè mettiamo due pivot nelle tacche del tiro libero, uno da una parte, uno dall'altra, Esposito in mezzo, che poteva scegliere se uscire da una parte o dall'altra, quindi rendendo imprevedibile lo scopo. Un playmaker con la palla in mano e l'altro esterno, che era lì poverino sullo spigolo del tiro libero, doveva solo andare dall'altra parte, levarsi dalle palle, andare dall'altra parte dove usciva Enzino.
Ovviamente non abbiamo mostrato quel gioco in precampionato. Prima partita di campionato contro Milano, allenata da D’Antoni e Crespi, e prima giocata, Antonello Riva, altrettanto famoso per essere un grande tiratore uscendo verso destra con il suo arresto sinistro-destro e un gran “ricciolatore” quando uscì dall'altra parte, gioca questo gioco, una versione leggermente diversa, ma lo stesso, lo stesso principio. Prima azione nostra per Enzo e facciamo la stessa cosa. Cosa vuol dire? Vuol dire che anche quando credi di aver inventato qualcosa, c'è già qualcuno dall'altra parte del mondo o a 200 km di distanza, che l'ha inventato prima di te.
Però nella tua testa era tuo.
Nella nostra testa era il nostro. Erano anche molto orgogliosi, no? Come del resto lo Spanish pick and roll, per esempio, che tutti mi attribuiscono: io non ho dubbi che da qualche parte del mondo magari qualcuno meno famoso o meno conosciuto lo abbia sperimentato, utilizzato prima di me. Tra l'altro lo Spanish pick and roll, che fu usato e inventato in Russia, perché io lo utilizzavo per la prima volta in Russia, perché avevo due giocatori che dovevano giocare il pick and roll. Uno era un buon trattatore di palla, quindi lo mettevo a trattare la palla, giocare il pick and roll. E l'altro, per non creare problemi, perché ogni volta che lo mettevamo in un angolo su uomo, stava in mezzo all'area, ad aiutare sulla continuazione, sul roll profondo del nostro pivot, che era Timotei Mozgov, un giocatore che poi andò in NBA. Per coincidenza, per casualità, una volta questo giocatore, si chiamava Ponkrashov anche un giocatore abbastanza conosciuto si era perso in mezzo all'area e mentre gli altri stavano giocando il Pick and Roll ed ebbe l'idea non di fare un blocco cieco, ma di fermarsi per proteggersi dall'impatto del pivot difensivo che stava cercando di difendere. Fu un'illuminazione perché abbiamo trovato il posto dove mettere Ponkrashov, ti metti lì e ovviamente fai un blocco cieco in modo che rimanga agganciato nel blocco il pivot che difende contro Timotei, mentre Mil Palacio e Mozgov giocano il pick and roll.
E lì lo creammo. Però, ripeto, magari in Australia, in Groenlandia, in Uruguay, c'è stato qualcuno che ci è arrivato prima di noi, prima di te.
Tu sei andato in Spagna nel 1997, quando il campionato italiano era ancora sicuramente un campionato ad alto livello. Non so se era ancora meglio del campionato spagnolo, ma comunque era un campionato ad altissimo livello. La tua scelta da cosa è stata dettata principalmente? A parte le questioni economiche che non le voglio sapere. La scelta della Spagna, la scelta di andare all'estero, visto che sei stato uno dei primi allenatori italiani che è andato all'estero.
Soprattutto perché mi rendevo conto che la Spagna era il paese, il movimento cestistico, con grande differenza sopra tutti gli altri, che faceva pensare a un'evoluzione, a una impennata, addirittura sotto tutti i punti di vista, come in effetti fu. E, parallelamente, avevo la sensazione che il movimento italiano fosse in chiara parabola discendente. Quindi la sensazione che bisognava ampliare un po' i propri orizzonti, studiando quindi la lingua del posto per poterci andare, diciamo, in maniera da potermi inserire dal punto di vista personale, dal punto di vista tecnico eccetera, nel modo miglior possibile, qualche mese prima di arrivare finalmente, per buona coincidenza, con un'offerta proprio dal Tau, nell'estate successiva.
Mi ricollego alla storia del Tau Vittoria che, come dico sempre, magari in pochi lo sanno, a Vittoria, dove c'era una discarica, adesso c'è uno dei più bei palasport d'Europa che è l'Armando Buesa, e purtroppo in Italia, dove c'era un bel palasport, ossia il Mario Argento di Napoli, adesso c'è una discarica. E forse in tutto questo c'è anche la differenza fra il basket italiano e il basket spagnolo.
Ti volevo chiedere come mai il basket italiano non riesce nemmeno a copiare gli esempi che funzionano come quello della Spagna? Questione di risorse, questione di capacità delle persone o che cosa?
Ma penso che un'analisi seria debba toccare diversi aspetti. E anche, soprattutto, abbracciare un periodo di tempo molto molto lungo, perché le cose non succedono dalla notte al giorno. Onestamente, rimpiango molto un gruppo di dirigenti storici che erano quelli che portavano avanti le società da proprietari, diciamo, Presidenti Operativi o da General Manager, però con una grande conoscenza della pallacanestro, una grande passione, una grande un grande interesse per l'evoluzione anche proprio altruista, non solo proiettata sulla propria squadra, sul proprio orticello, ma sul nostro sport, che era già affermato, però che ha visto un momento di boom proprio negli anni in cui io mi ci affacciai e diventai un piccolo professionista, un giovane apprendista professionista. Quindi direi che in generale, se vuoi parlare degli impianti sportivi c’è una differenza abissale. Puoi parlare della presenza della pallacanestro nelle scuole che è anche qui una differenza neanche immaginabile. Poi c’è anche il coinvolgimento delle istituzioni, il coinvolgimento delle aziende. Cioè, ci sono molte, molte cose che concorrono. Non c'è una causa sola, ovviamente, però mi fa pensare che non ci siano più quei grandi manager di allora, quei grandi professionisti o anche proprietari che però avevano tanta passione, tanta voglia, pur nel rispetto dei ruoli tecnici di quelli che poi sceglievano come allenatori o come direttori sportivi, eccetera.
Però voglio pensare che il boom del basket italiano non fu casualmente legato a questi personaggi, ma fu causalmente legato alla loro presenza perché fecero veramente delle cose grandissime.
Aggiungo anche il sostegno da parte della televisione dei giornali alla pallacanestro spagnola, cosa che in Italia è ben diversa.
Sì, però alla fine, ripeto, possiamo nominare tante cose, bisogna capire qual è la causa, qual è l'effetto. Io credo che alla fine siano tutte cose che sono compito di una classe dirigente che, forse, ed è curioso perché ha esportato anche degli ottimi professionisti, ma li ha esportati perché non avevano spazio, che invece hanno trovato una gratificazione e una valorizzazione lontano dall'Italia. Viceversa, dei posti chiamati a fare la differenza per tanti anni, purtroppo non si sono trovati con la possibilità di contare su gente capace ecc.
Allora, riguardo l'Eurolega volevo chiederti. Noi abbiamo due squadre, che sono Milano e Virtus in Eurolega, che secondo me giocano in Eurolega avendo avuto due percorsi diversi. Tra l'altro, le hai allenate tutte e due. Un percorso riguarda te, perché la Virtus è arrivata in Eurolega vincendo l'Euro Cup, non avendo licenze da tanti anni, no? Per cui se io fossi il tifoso Virtus seguendo il percorso con cui siamo arrivati, mi aspetto che non è che il primo anno vinciamo l'Eurolega, che ci sia un percorso anche lì. Milano, invece, no. Mi chiede la regia che cosa serve a una squadra italiana in questo momento storico, non dico per vincere l'Eurolega, ma per stare sempre più o meno a galla sotto quelle prima che secondo me hanno un budget troppo superiore per non essere prime loro. Sento parlare dei discorsi di tassazione che a Monaco, dove non si pagano le tasse, o che in Grecia e Spagna sono la metà. È solo una questione di soldi o di organizzazioni, forse un po'?
Guarda, il discorso anche qui è molto lungo, impossibile da fare in un momento. Direi, però in generale, che sai, tirare fuori sempre le scuse perché non si possano fare le cose, non è che...
Perché i tifosi di Milano non si divertono molto.
Anche la ricerca delle risorse fa parte del lavoro di un quadro, di un club, eccetera. Cioè, ci sono molte cose, molti fattori che concorrono e diciamo il discorso sarebbe piuttosto lungo e coinvolgerebbe tanti aspetti che però chiaramente fanno tutti parte di una realtà che è quella che tu hai enunciato.
Ok, stiamo su Eurolega. Cosa ne pensi, Sergio, dell'ingresso del mondo arabo che sta cominciando a inserirsi? Chi nelle leghe nazionali e chi vuole fare le coppe con noi?
Teoricamente non è una cattiva notizia. Chiaramente tutto quanto può aiutare ad ampliare il bacino di risorse di una... Diciamo di una pallacanestro che qui in Europa è comunque deficitaria dal punto di vista economico. Perché qui, qui, stiamo parlando di una realtà europea e non di una realtà nazionale di un paese o di un altro. Cioè globalmente è chiaro che se mettiamo gli introiti da una parte su un piatto della bilancia e le uscite dall'altra, l'entrata da una parte, uscite dall'altra, il piatto è sbilanciatissimo. Direi che potrebbe essere un momento importante per l'entrata della NBA che è prossima, non è immediata, ma è prossimo. Io guardo più senza, ripeto, senza voler bollare di negativo l'ingresso di possibili forze provenienti dagli Emirati, eccetera. Guardando con interesse e con curiosità, però penso che viceversa, dal punto di vista del know-how, dal punto di vista del miglioramento in generale del modo di fare, diciamo, nel basket europeo, probabilmente sarà più significativo. L'ingresso prossimo, con questo partnership con la NBA che sembra stia procedendo, non so bene con che tempi, però non credo lunghissimi. La NBA col suo metodo, con tutte le sue, diciamo, qualità, anche con i suoi mezzi.
Soprattutto se saranno capaci di capire qual è la situazione, la specificità del basket europeo, se saranno capaci di capire dove bisogna tagliare, cambiare del tutto immediatamente, dove invece bisogna pian pianino modificare per non modificare delle parti della cultura di questo sport in questo continente che comunque molte cose buone le ha fatte, soprattutto dal punto di vista della qualità tecnica, tattica, del lavoro dei giocatori. Giocatori allenatori sono naturalmente i gruppi professionali più importanti... Metterei anche gli arbitri, sinceramente, perché ce n'è di tanti buoni, soprattutto in Eurolega. Però questi tre gruppi professionali hanno raggiunto il livello di qualificazione, di sviluppo, di talento, di preparazione, onestamente molto importanti perché anche un’istituzione del calibro della NBA arrivando se ne renda conto in fretta e possa trarne vantaggio.
Allora, Io pensavo che adesso il format principale è Eurolega, e considerando che chi gioca l'Eurolega fa anche i campionati nazionali, giocando un sacco di partite, che piaccia o che non piaccia, anche a livello dei regolamenti tecnici, si sta andando un po' verso la NBA. Giochi tante partite, ti alleni un po' meno. Quello che volevo sapere da te era, secondo te, al contrario dei tifosi NBA, i nostri europei non apprezzano tanto lo spettacolo NBA che è più uno show. Poi dopo se vinci, è chiaro che siano contenti, però c'è la famiglia che va al palazzo, mangiano, fanno la giornata insieme, stanno fuori e si guardano questo bello show. Qui chi va al Palazzo e perde un quarto già si innervosisce.
Bisogna anche vedere cosa dai alla gente. Effettivamente uno spettatore che va a vedere una partita NBA prima, durante, dopo, ci va con delle aspettative che sono sicuramente di vedere giocar bene e vincere la sua squadra, ma anche di divertirsi per tutto quello che c'è intorno. Da noi l'obiettivo del tifoso, dello spettacolo, è un po' più orientato verso il risultato senza dubbio. Anche se è vero che lo spettatore non ha mai provato veramente, tranne quando è andato a vedere qualche partita della NBA o magari qualche partita della NBA in Europa. Ma è sicuramente una questione di mentalità diversa.
Esatto, sì. Cioè tu là vai a Los Angeles, prendi il tuo bimbo, tua moglie, vi fate la giornata insieme. Qui se vai al palazzo, io sono della Fortitudo, quindi puoi immaginarti, se vai al palazzo con il tuo figlio può essere un peso, perché vuoi insultare l'avversario e se perdi con tuo figlio non ci parli.
Io mi ricordo una volta a Milwaukee, che uno, neanche dietro la panchina, ma in quinta, sesta fila, insultò Nick Nurse, il mio capo allenatore, e Nick si diresse verso il nostro addetto alla sicurezza. Questo prende, parte, va con l'addetto alla sicurezza della squadra di Milwaukee, lo prendono, lo portano fuori dal palazzetto solo perché aveva insultato il coach. Direi che la differenza è chiara.
Esatto. Sempre sulla NBA: che cos'è che tu hai imparato dal coaching di una squadra NBA e che cosa hai dato tu? Perché sono sicuro che abbia dato tu anche qualcosa.
Sai, quello che ho dato, sarà meglio chiederlo a loro, visto che io faccio fatica. Sì, sì, Kawhi Leonard, Kyle Lowry, che sono forse quelli più accreditati per poterlo dire, ma anche allo stesso Masai Ujiri, che è considerato il più grande dirigente oggigiorno nella NBA, che è stato il mio presidente per tre anni. Sono momenti molto belli in cui ho avuto l'orgoglio di poter uscire dalla mia zona di comfort e crearmene una nuova da zero, facendo anche molta fatica, nei primi mesi soprattutto, nei primi tre soprattutto, provando a fare del mio meglio. Poi è chiaro che la prima cosa è stata capire che sei tu che devi adattarti a loro e non loro adattarti a te. Poi una volta che tu ti adatti, perché vieni percepito come uno di loro, puoi anche permetterti di cominciare a dire: ma perché non facciamo così o non facciamo cosa?
Quello è stato il “trovarti male”, che dicevi prima? L'adattamento?
Più che altro adattarti, ma anche proprio a livello di comunicazione, a livello di lingua con la velocità con la quale devi usarla per lavorare, a livello di sigle, di tecnologia, di mentalità, di cultura. Non c'è dubbio che ho imparato moltissimo e che ci sono molte cose che pian pianino mi rendo conto di quanto stanno diventando importanti anche in Europa, soprattutto con questa intensificazione del calendario, dove per esempio allenarsi meno, dal punto di vista del volume, non vuol dire necessariamente allenarsi peggio, perché c'è molto lavoro di qualità che si può fare senza sovraccaricare i giocatori, soprattutto senza aumentare il rischio di infortuni. E poi c'è una grande quantità di lavoro individuale che si può fare ogni giorno, almeno un'oretta al giorno. Poi ci sono molte altre cose, come vengono seguiti i giocatori fuori dal campo dal punto di vista psicologico, dietologico, come si fa prevenzione su tutto. Si fa addirittura supporto per quanto riguarda il sonno, per aiutare il riposo, il recupero. Ci sono mille cose per le quali vai lì e rimani a bocca aperta. Poi piano piano impari e ti rendi conto che alcune pian pianino possono anche essere implementate anche qui da noi.
Rimanendo in argomento Eurolega, volevo fare una domanda: chi allena una squadra di Eurolega in Italia, di fatto, allena due squadre: quella italiana, quella del campionato italiano con 6 giocatori italiani referto, e quella dell'Eurolega, dove non ci sono limiti di questo tipo. Cosa comporta per un allenatore il dover fare delle scelte? Ad ogni partita devi scegliere chi tenere fuori.
Sì, decisamente. Anche se, per esempio, è più facile rispetto a paesi dove devi anche pensare a tener la gente in campo. C'è sempre di peggio. Però effettivamente è complesso. Io, onestamente, faccio fatica a capire qual è la formula giusta. Tra l'altro la questione è anche diversa, nel senso che fra giocatore con uno status di nazionale al giocatore selezionabile dalla nazionale del paese c'è una differenza, soprattutto in Spagna che è un paese tremendamente importatore di talento molto giovane dall'estero. Perché in questo modo la Spagna si riduce ad essere il paese con dove giocano meno spagnoli. In Eurolega, la Spagna è il paese numero 10 o 12 per numero di giocatori che giocano. Nei quarti in Eurolega è rarissimo che si veda un giocatore spagnolo che gioca i palloni decisivi. Da un certo punto di vista la situazione è veramente preoccupante. La domanda da porsi è: allora questo sistema aiuta lo sviluppo dei giocatori o non lo aiuta?
Io non lo so. Onestamente, sicuramente rende più difficile il lavoro degli allenatori, perché dover lasciar fuori la gente, dover cambiare le rotazioni, dover non rispondere a criteri fisici o tecnici, ma rispondere a criteri di regolamento di eleggibilità è un qualcosa che succede nei campionati nazionali, più o meno in tutti. Non succede nella NBA, non succede in Eurolega, che guarda caso, sono i campionati più seguiti dagli spettatori di tutto il mondo.
Allora restiamo in una connessione Spagna-America. Il percorso che sta facendo tuo figlio era un desiderio suo? È stato un po' spinto da papà di andar di là?
Ma sai, è stata una considerazione obbligata, perché quando finì con il settore giovanilee ricevete la famosa offerta del primo contratto professionistico per quattro anni, con il minimo di stipendio eccetera eccetera, dal parte dell'Unicaja Malaga, la squadra dove giocava, la prima cosa che feci fu chiedere quando si sarebbero allenati, facendo finta di non saperlo, perché ovviamente facendo questo lavoro lo sapevo benissimo, per poi confrontarmi con l'università che comunque volevamo e anche lui voleva continuare a frequentare. La compatibilità era assolutamente impossibile, non c'era maniera di poter continuare i suoi studi mantenendo questo ruolo dove sarebbe stato il 12°, il 13°. Quindi a quel punto, visto che ha ricevuto delle offerte da parte degli Stati Uniti, la scelta è stata obbligata, forse un po' accelerata, nel senso che lui ha finito la scuola a 17 anni e mezzo e andare nella NCAA a 17 anni e mezzo in una division one, è un salto veramente duro. Se tu non sei un fenomeno è veramente duro.
In effetti il primo anno non giocò, poi negli anni successivi riuscì a a trovare pian piano il suo spazio. Poi l'anno scorso, il primo anno da professionista nella Leb qui in Spagna, i primi due o tre mesi furono tragici, perché il riadattamento alla Pallacanestro Europea fu veramente complicato. Per molti motivi ci vuole un periodo di riadattamento che per fortuna poi è trascorso in maniera proficua e adesso sta andando abbastanza bene.
Una delle poche note liete della Virtus in questo inizio di stagione è stato il rendimento di Momo Diouf, che dopo alcuni anni a Reggio Emilia abbastanza deludenti ha fatto un anno al Breogan Lugo l'anno scorso ed è tornato qua in Italia ed è un giocatore vero, uno che sta in campo tranquillamente, anche in Eurolega. La domanda che faccio io è questa: nel momento in cui ti devi guadagnare il posto in squadra, migliori. Se te lo impone un regolamento, e torniamo al discorso dei sei italiani obbligatori nel campionato, forse questi miglioramenti non si vedono. Non è un caso che molti nostri giocatori sono migliorati andando all'estero, come ad esempio Hackett, Melli, Spagnolo. È solo una mia impressione o è così? Nel senso che se ti devi guadagnare il posto in squadra alla fine migliori.
Non c'è dubbio che ci sono diverse cose che fanno migliorare i giocatori. Ovviamente la qualità del lavoro individuale, la loro maturazione, che poi può essere anche aiutata proprio da allenatori mentali, cosa che per esempio in NBA è diffusissima. Però poi devi giocare. Giocare vuol dire, come ben dici tu, guadagnarti, come dico sempre ai miei giovani qui in Spagna che si lamentano giustamente, anche perché non hanno spazio nello squadre: “Dovete guadagnarvi lo spazio nelle squadre.” Adesso, la questione è che se tu pretendi di far maturare un giocatore mettendogli tre giocatori davanti nel suo ruolo, hai già rinunciato all'idea di farlo migliorare. Se gliene metti uno davanti, magari uno con cui compete per quella posizione in campo, allora già è un'altra cosa. Quindi voglio dire, ci devono essere delle premesse minime di spazio a disposizione del giocatore che se fa bene lo ottiene.
È ovvio che se lo chiudi in partenza con gente veterana, esperta, più pronta per giocare, per quanto lui poi magari in allenamento fa il possibile per poter emergere, magari non ce la fa.
Secondo me è una questione soprattutto di club, più che di allenatori. Cioè la scelta di puntare su un giocatore, creargli lo spazio nel roster, creargli una situazione in cui se lui poi è bravo a approfittarne, riesce a stare in campo, riesce a guadagnarsi quei minuti, che lo aiutano a essere sempre migliore, è una scelta di società. Ci sono le società, per esempio la Joventut Badalona, e storicamente, a suo tempo l’Estudiantes, ci sono delle società che puntano sui giocatori, gli creano il loro spazio intorno corretto e, guarda caso, nella maggior parte dei casi questi giocatori ne hanno approfittato. Chiaramente non li devi neanche bruciare, non li deve mettere nei primi cinque con 30 minuti sulle spalle se non sono in grado di farlo, se non sono ancora pronti per farlo. Bisogna fare delle scelte personalizzate, in maniera oculata e cercando poi di essere coerenti e non cambiare idea se hai perso una partita, se dopo tre partite questo giocatore sta facendo fatica, o se al contrario ha fatto grandi cose.
Direi che sono scelte che vanno fatte caso per caso con grande intelligenza, però soprattutto, ripeto, con gente che con un'altra conoscenza della pallacanestro che non sia l'allenatore, che l'allenatore poi alla fine fa quello che gli dice la società: devi vincere le partite, devi far maturare i giocatori, questo giocatore deve essere una parte importante del nostro futuro, oppure pensa solo a vincere di uno con due tiri liberi all'ultimo secondo. Sono scelte che vanno fatte, direi, soprattutto a livello societario.
Allora abbiamo due rubriche di solito. La prima richiede una risposta secca. Dato che io sto in Spagna come te, ti volevo chiedere: ti sei già abituato al Patanegra o il tuo salume preferito è ancora un salume italiano?
No, no, mi continua a piacere il prosciutto italiano, quando vengo in Italia, ma…
Il top è il Patanegra.
Il Patanegra, senza dubbio.
L'altra rubrica è un gioco stupido, si chiama il Gioco del Naufrago. Abbiamo Sergio Scariolo che naufraga in una piccola isola deserta. Dopo un po' ti accorgi che non te ne andrai più, morirai lì, non c'è modo di scappare. La premessa è che una fonte d'acqua potabile c'è, per cui dovrai scegliermi due bevande, alcooliche o analcoliche come vuoi te, che avrai a disposizione tutto il resto della tua vita; tre cibi, una canzone da ascoltare che sia una e un film da vedere che sia uno.
Però, bella prospettiva…
Bella rubrica, vero?
Mi sparo un colpo prima, magari, no?
Non tornerai mai più con noi solo per questa rubrica…
Allora, le bevande, sicuramente acqua buona, acqua fresca.
Hai la fonte.
Naturale. La fonte ce l'ho già.
Sì, quella era l'unica cosa positiva.
Direi sicuramente due succhi di frutta, di due frutti diverse, però sicuramente non alcolici. Te li lascio scegliere a te. A me piacciono. Va bene. Il film il padrino atto primo, sicuramente. Cos'altro?
Una canzone
Certe notti di Ligabue.
Wow, qua rimaniamo in Italia. E invece sono tre cibi. E tutta la vita li puoi alternare, mangi tutte le volte.
Considerando che a quel punto non me ne fregherebbe più niente. Forse anche della salute, perché magari se schiatto presto finisce 'sta tortura, no? Quindi posso riempirmi di zuccheri, anche lì, tre dolci.
A tre dolci direttamente?
Tre dolci te li lascio scegliere. No, mettiamoci il risotto, mettiamo un risotto, un buon risotto e sicuramente due dolci, probabilmente uno deve essere un gelato, e il terzo se la può giocare un tiramisù con una mousse oppure dei cannoli.
Abbiamo scoperto il lato dolce di Sergio Scariolo.
Mi sembra di capire tu sia a casa. Saresti così dolce da farmi brillare gli occhi facendomi vedere una medaglia d'oro, un anello, che io li vedo sempre da lontano.
Purtroppo non so quali ho non ho tanto. Le ho nella sala Trofei, che è sotto nella palestra, una bella stanza che abbiamo costruito con le cose anche di mia moglie e mio figlio. Qui, cosa ti posso far vedere. Ho la laurea, ho il diploma di Cavaliere della Repubblica. Aspetta che mi giro e ti faccio vedere qua. Aspetta che giriamo. Qui c'è il diploma del Cammino de Santiago.
Wow, l'hai fatto tutto?
Sì, sì, ho fatto tutto. Questa è la mia prima squadra allenata, Brescia. Guarda un po'.
Va mo là, incorniciata.
Qui il diploma di figlio adottivo della città di Malaga, la medaglia della città. Qui la laurea. È bella. Qui il Cavalierato, qui son con Kawhi, qui con i miei figli.
Volevo ricordare che questa non è la sala dei trofei, ragazzi. No, no, no. Quella è un'altra. Pau, il re.
Qui due scritti che mi accompagneranno sempre. Guarda, forse Posso cambiare Amici miei con il padrino?
Sì, puoi cambiare.
Questo è il mio studio.
E questa, la Maglia dell'Inter.
Bene ragazzi.
Allora io ti ringrazio tanto, sono stato molto emozionato, molto contento. Grazie. Le porte per te quando vorrai sono aperte, e prometto che cambierò rubrica, basta quella dell'Isola. E niente, buon Serran... Anzi, buon Pata Negra. E noi ci vediamo alla prossima. Grazie Sergio, in bocca al lupo.
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