BASKET CITY AL MARE
Waimer alzò gli occhi al cielo. Era la notte di San Lorenzo, non solo una canzone con cui Franco Simone partecipò al Festivalbar del 1983 (chi la conoscesse merita di avere in premio un pelo della sua barba), ma anche occasione per desideri e affini. E Waimer, che non aveva avuto grande fortuna con la gnocca, poteva comunque dire che altre cose erano andate bene. Infatti, la moltiplicazione delle squadre di basket aveva aumentato il numero di ombrelloni occupati, con conseguente maggiore introito e gioie per il bagnino romagnolo. Adì, nemmeno ai tempi della Virtus 34 le cose andavano così bene, pigolò al risveglio, preparandosi a rastrellare la sabbia dagli scarti notturni.
Sotto l'ombrellone bianconero, c'era un inedito senso di noia. Il tifoso aveva anche terminato le parole crociate (che, essendo bianconere, gli aggradavano anche solo per l'accoppiamento cromatico), si era letto Diva e Donna tre volte di fila e aveva speso quanto un posto in prima fila per il pedalò. Ma una estate così normale, lui, proprio non se la ricordava. Un mercato fatto con logica, niente di clamoroso, addirittura la notizia delle dirette tv per le trasferte che lo avevano fatto saltare di gioia: dato che in precedenza anche le radiocronache erano state un optional, ora era davvero manna dal cielo. Ci sarebbe stato di che mettersi a russare, nell'abbiocco si mise a sognicchiare di quando, qualche settimana prima, aveva sentito i vicini di ombrellone disquisire di un incontro al Benassi, ed elaborò una canzoncina con cui si svegliò di soprassalto. Nella saletta di un palazzone / i fortitudini senza padrone / organizzarono una riunione / per precisare la situazione. Si girò, e vide - clamore! - che ora gli ombrelloni biancoblu, o presunti tali, erano diventati ufficialmente due.
Sotto il primo, si disquisiva di calendario e di mercato: pareva che tutto andasse bene, e la normalità era fatta di commenti sui nuovi arrivi (Baldassarre? E Gaspare? E Zuzzurro?, si vociferava) così come di come, le prime giornate di campionato, non è che fossero poi così semplici. Sia chiaro: non si sentiva parlare di Venezia da decenni, Veroli andava cercata con il Tom Tom, ma dopo gli ultimi due anni passati a scartabellare per trovare Cavriago e Fidenza, era grasso che colava. Certo, restava il dubbio sull'araldica della società, che era nata sotto la bandiera Fortitudo ma che non poteva chiamarsi così, e il dubbio che, mantenendosi in vita quell'altro, tutto potesse essere assolutamente vano. Ma la voglia di giocare a pallacanestro sapendo che non ci sarebbe stato il rischio di dover discutere di lodi, di avere come referenti soggetti magari ingenui ma con un pedigree sportivo ancora intonso, era più forte di qualsiasi cosa.
Con l'altro ombrellone ormai non ci si parlava più, dando per scontato che gli altri fossero nel torto. L'altro era un ombrellone dove il quesito araldico restava forte, soprattutto in un momento in cui nemmeno c'era la certezza di poter avere, nel nome, un richiamo a quel numerino - 103 – che evidentemente il Gestore riteneva fosse giusto essere messo in vetrina. Ma c'era più vicinanza all'originale, la speranza che prima o poi i tempi sarebbero cambiati, e nessuna voglia di andare a cercare scorciatoie per tornare ad avere purezza. Ci si accusava reciprocamente ad alta voce ("Sono Ferrara, sono dei falsari", "Sono Ozzano, con la Virtus che gli fa il mercato"), ma ormai il dialogo era finito. Waimer guardava, osservava, si contava i soldi in tasca e si chiedeva come mai piacesse tanto quel tipo di gossip, fatto di basket ma totalmente lontano dal basket, che ormai impazzava da anni sulla sua spiaggia. Ma non dovrebbe essere più bello il rumore della palla sul parquet che non invece il frusciare di carte bollate e altre cose, si chiedeva. Vero, verissimo, pensava. Però, finchè il registratore di cassa gongolava, tanto di guadagnato.