SUGAR RICHARDSON: UN ONORE TORNARE A BOLOGNA, MI PIACEREBBE ALLENARE QUI
Sugar Richardson è tornato a Bologna su invito della Fondazione, e ha parlato alla stampa in una conferenza stampa che si è tenuta all'Hotel I Portici.
Ecco le parole degli intervenuti.
Daniele Fornaciari, presidente di Fondazione Virtus - La Fondazione Virtus Pallacanestro Bologna è felice di aver organizzato il ritorno di Sugar Richardson. La Fondazione è presente nell’attualità, guarda il futuro ma non dimentica il passato. Avere qui Sugar è una grande soddisfazione.
Giovanni Setti - Ho mantenuto sempre i contatti con Sugar, lui aveva espresso tempo fa la volontà di venire a Bologna. Ho sondato il terreno e ho trovato subito entusiasmo nell’ambiente, in Fondazione e in Virtus. Credo di aver interpretato quello che è il mio sentimento: per me l’arrivo di Michael in Virtus ebbe un impatto enorme, come dico ai miei figli è come se oggi fosse arrivato un Chris Paul o un Russel Westbrook. Una persone che ha dato tantissimo alla Virtus e al basket ed è ancora in grande forma.
Sugar Richardson - È un onore tornare a Bologna, sono molto contento di vedere le facce che vedevo quando giocavo. Bologna è come New York, se ce la fai a Bologna ce la fai ovunque. Porelli? Lui era unico nel suo genere e il basket italiano ha perso figure come lui. Io con lui non avevo un contratto firmato ma solo una stretta di mano. Mi piacerebbe molto venire ad allenare in Europa e in Italia, ovviamente soprattutto a Bologna. Fare l’allenatore non è una questione statistica; i giocatori devono seguirti e devono capire quello che tu proponi.
La Virtus giocherà la Final Four di Champions League. Come si gioca una finale? Quando hai l’opportunità di giocare una finale devi dare tutto quello che hai, perché non sai se ricapiterà. Devi dare il meglio di te stesso in quel momento: c’è un sacco di pressione perché tutti ti guardano e devi saperla gestire e fare il meglio.
Lavoro per l’NBA Basketball Academy, in Australia, Cina e nei paesi dell’Africa: alleno giocatori giovanissimi. In India sono ancora abbastanza lontani da avere giocatori competitivi mentre in Africa ci sono molti prospetti interessanti.
Il basket è un show, anche se l’obiettivo è vincere. I tifosi vengono alle partite per vedere vincere ma anche per sentirsi parte dello spettacolo. Io facevo questo, cercavo di farli sentire dentro lo spettacolo e farli vincere. Le cose sono cambiate molto in Europa e anche negli Stati Uniti: ai miei tempi si tirava 6-7 volte da tre punti. Il gioco di adesso è atletico. Il mio giocatore preferito in Italia? Antonello Riva, McAdoo e Roberto Premier, che era il giocatore più “sporco”.
Pozzecco ed Esposito te li aspettavi come buoni allenatori? Erano ottimi giocatori di basket, capiscono il gioco e quindi è abbastanza normale che adesso sappiano allenare. Il lavoro dell’allenatore è come quello dello psicologo: hai 13-14 personalità diverse, devi essere capace di far sentire importante ognuno di loro. In NBA è difficile fare l’allenatore perché quando giocavo io l’allenatore aveva il potere; ora sono i giocatori che hanno il potere.
Quando giocavo io la Virtus era Hollywood e la Fortitudo era la squadra dei lavoratori. In tutte le rivalità è così: anche in NBA, c’è lo stesso discorso per Lakers e Clippers.