Di solito, dopo una ubriacatura ci si mette un po' di tempo, prima di riprendere contatto con il mondo. Eppure, quella Fortitudo non ebbe bisogno di terapie d'urto, per evitare gli eccessi. Magari fu complesso tenere a bada il pubblico, che inondò le biglietterie per presenziare, in infrasettimanale di mercoledì sera, alla seconda e già decisiva sfida. Si narrava che alle biglietterie, per evitare infiltrazioni bianconere, venissero chiesti cori fortitudini e interrogazioni per essere certi della provenienza cardiaca del questuante, per intenderci.

La partita fu più equilibrata, con la Virtus che aveva metabolizzato l'assenza di Brunamonti (in panchina in NE, per lui furono quindi solo 2 minuti giocati su 80) e che, non potendo contare su un nuovo exploit di Marcheselli (avrebbe fatto 2/9), tenne a lungo qualche punto di vantaggio con il redivivo Fantin e le iniziative di Macy. Però la Fortitudo - che non vinceva un derby casalingo di campionato da un bel po' di tempo, facciamo una quindicina d'anni - non tremò, certa della propria superiorità e di un Palasport che in regular era rimasto imbattuto. Nel secondo tempo ci fu il sorpasso (con la minuscola), 77-70 finale, e quindi il Sorpasso. Abbiamo vinto perchè siamo più forti, disse un Di Vincenzo che con la Virtus aveva il dente avvelenato. E il giorno dopo anche la Gazzetta dello Sport, solitamente austera verso altri sport, a maggior ragione se non lumbard, mise in prima pagina la notizia delle torri che si erano scambiate di posto.

Per la Virtus fu il ribaltone che avrebbe portato all'inizio dell'era Richardson (e, se vogliamo, di Ettore Messina). Per la Fortitudo uno storico quarto di finale che venne giocato a testa altissima contro Cantù, rischiando e non poco l'ennesimo scalpo clamoroso. Ma, soprattutto, la più grande emozione della storia, almeno fino a quei giorni.


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