Stefano Pillastrini presenterà il suo libro “Pillacanestro” oggi alla Casa della Carità di Corticella, in via del Tuscolano, e martedì prossimo in Fortitudo. Lo abbiamo sentito per farci raccontare da dove è nata questa idea.

“E’ un libro che parla delle mie esperienze, che sono state molto varie. Come dice il sottotitolo, io vengo dai campetti, dal basket della strada, quello dove si gioca per il divertimento. E ho fatto di tutto, allenando dal minibasket all’Eurolega, dai piccoli club fondandone anche uno, il Corticella San Savino, arrivando alle due bolognesi, a Pesaro, Treviso e Varese. Piccoli centri e metropoli, grandi proprietari come Scavolini e altri particolari come Sabatini. Si parla di queste cose, non di tecnica. Vite vissute, persone, i giocatori che ho allenato, i giovani e i veterani, i miei assistenti, i preparatori, tutto quello che ho vissuto e ho incontrato. E il camp di Cesenatico, altra cosa importante nella mia vita”

Il fatto che ci sia un intento di beneficienza offre una luce ancora più forte all’opera. "Mi hanno chiesto se darò parte dell’incasso, in realtà è il totale che va alla Casa della Carità di Corticella, e il tutto è stato stampato a mie spese. E’ un posto che mi è caro, dove sono cresciuto, dove ho capito cosa vuol dire fare squadra e aiutare gli altri. Lì, ho capito che con il sorriso si può fare tanto”

Come è nata la tua passione per il basket? “Da due biglietti che l’Onorevole Tesini, capufficio di mio padre e all’epoca presidente Fortitudo, regalò a mio padre. Ero in prima media, e io fino ad allora avevo solo guardato qualcosa in tv con la voce di Aldo Giordani. Quei due biglietti mi hanno aperto un mondo, poi quando ne sono arrivati di meno ho fatto l’abbonamento, anche a tutte e tre le bolognesi: Virtus, Fortitudo e Gira”

La Fortitudo è stata la tua palestra. “Assolutamente. Io ho cominciato prima come tifoso, poi come appassionato, cercando soprattutto di capire le logiche del gioco. Poi sono andato a seguire i bambini, le foresterie, le giovanili, e poi ho fatto il salto alla prima squadra. Tutto questo sotto la presidenza di Gambini, che mi ha preso prima per i giovani, e poi facendomi diventare allenatore a 29 anni e iniziando quindi la mia carriera”

Punti di riferimento ne hai avuti, modelli? “Il mio allenatore delle giovanili Bruno Bernardini e il mio primo capo allenatore, Andrea Sassoli. Sono quelli da cui ho cercato di imparare di più. Poi, quando ho cominciato a fare la voglia dell’allenare, potevo guardare Peterson e Nikolic che in quel momento erano entrambi a Bologna, ed ogni partita era un clinic. Poi una bella scuola sono stati i derby giovanili contro la Virtus di Ettore Messina. Erano derby juniores, ma erano comunque una grandissima scuola”

Quando hai avuto per la prima volta una prima squadra l’hai visto come un punto di arrivo o di partenza? “Era Fortitudo-Arese nel 1990, e sinceramente non saprei rispondere. Non ho avuto mai una grande ambizione, sono diventato allenatore per una serie di eventi. Io avevo esempi di persone che facevano l’insegnante di mattina e allenavano di pomeriggio, e pensavo avrei fatto uguale. Per me già allenare era un sogno, era come non dover lavorare. Non ho mai vissuto l’ambizione di doverlo fare per forza, le cose sono arrivate in automatico, e non ho mai allenato le giovanili con l’idea di vincere un campionato (anche se poi è successo), tanto che davamo in prestito i giocatori (vedi Cessel a Brindisi) quando ritenevamo che per la loro crescita fosse meglio. Però, dal titolo juniores 1989 al diventare capo allenatore, forse ho iniziato a pensare che sarebbe potuto essere il mio mestiere. Ma non era il mio obiettivo principale.”

Un piano B lo hai mai avuto? “Assolutamente sì. Proprio per questo quando ho abbandonato l’idea di fare l’insegnante ho pensato di progettare la mia vita in funzione della famiglia, che poi con il tempo è diventata numerosa. Per questo abbiamo pensato all’Eurocamp, alle attività estive, appunto per non dipendere solo dalla pallacanestro allenata che non poteva dare certezze. Ho gestito la mia carriera in logica geografica, prefendo ad esempio Montegranaro in B piuttosto che andare in Europa al Prokom. Volevo stare vicino a casa, e per fortuna ho sempre avuto la possibilità di scegliere posti dove volevo andare, senza pensare alla categoria, tanto che spesso sono andato in leghe inferiori dove se non vinci ti etichettano in maniera negativa”.

Delle tante squadre e giocatori che hai avuto, chi è che magari ricordi con maggiore simpatia? “Gli inizi, perché quando abbiamo vinto la juniores del 1989 con la Fortitudo è stato un momento chiave. Poi ho avuto altre promozioni, almeno sei più quella di Treviso da Silver e Gold poi annullata dalla riforma del campionato. Ho avuto anche altri grandi risultati, tipo Pesaro, ma quella vittoria, andando a reclutando pezzo per pezzo, in giro per l’Italia, giocatori quasi sconosciuti perché non avevamo i soldi per lo scouting come altre cose, rimane nel mio cuore. Questo mi ha fatto diventare un allenatore conosciuto”.

Cosa è cambiato in questi trent’anni, sia a livello giovanile che di professionisti? “La mia generazione è stata quella più fortunata, ha vissuto gli investimenti più importanti per le juniores quando eravamo quasi più considerati degli allenatori pro. Dopo la Bosman questa cosa non è più esistita e il movimento si è impoverito. Oggi le squadre sono delle multinazionali, il mercato è sempre aperto, noi allenatori dobbiamo essere sempre pronti all’usa e getta, si fatica a seminare per avere un raccolto successivo ma si deve avere tutto subito. Però la professionalità dei giocatori è aumentata: sanno che senza la protezione del cartellino è un attimo restare a piedi. Quindi tante piccole cose sono più controllate, come l’alimentazione o la cura del proprio corpo”

A chi è rivolto il libro? “A chi è interessato a conoscermi, e a leggere storie di basket umili, di quelle che partono dalle piccole cose, dalla passione, dal piacere del gioco. Non ho pretese di insegnare nulla, voglio solo condividere le mie esperienze. Ho allenato tanta gente, da Premier ad Albertazzi, fino a Davide Moretti. Ho avuto De Raffaele come assistente, tanti altri, e sono storie interessati”.

Puoi dire che il tuo unico fallimento sia stato il 1982-83, nel San Savino dove giocava lo scrivente? “E’ stata una squadra che, come tutte quelle che ho allenato, ha dato grandissime emozioni. Comunque quella società la feci inziare nel 1979. Ma sono state tutte esperienze bellissime, abbiamo fondato assieme agli amici della parrocchia un club dal nulla, e dal nulla sono arrivati tanti bambini a giocare con voglia e passione. Ed è bello essere ricordato. Devo però ammettere che nonostante il tuo talento cristallino, io non ero abbastanza preparato per tirare fuori tutto il tuo potenziale. Oggi forse sarei capace di fare meglio, ti ho tarpato le ali”


Ciao,
sono Stefano Pillastrini e ho scritto un libro che intendo presentare alla Casa della Carità di Corticella il giorno 23 Ottobre alle 20.30.
Il libro si chiama Pillacanestro e parla delle mie esperienze sportive dalle origini fino a oggi. Faccio questa presentazione alla “Casa” perché lì ho imparato molto e rappresenta molto nella mia crescita.
Le mie radici sono infatti corticellesi e le persone e i luoghi che ho frequentato nell’infanzia e nell’adolescenza hanno dato una grande impronta alla mia vita.
L’invito è per tutti gli appassionati vecchi e nuovi della Casa e del Basket corticellesi e non.
Mi piacerebbe incontrare tutte le persone con cui ho condiviso quei momenti e vorrei che la presentazione del libro fosse un’occasione per rivedere anche i vecchi amici.
L’intero incasso ricavato dalla vendita dei libri andrà in beneficenza alle case della carità.
Grazie


Il libro può essere ordinato scrivendo a [email protected]

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