Il bello e il brutto di quanto legato al giocatore capitò in un caldo pomeriggio di fine agosto. Palasport di Budrio, amichevole tra la Biancoblu di Salieri e una rappresentativa americana che, si capì subito, nel prepartita aveva indugiato più sulle tagliatelle che non sul tagliafuori. Matteo Montano non entrò in quintetto, come normale che fosse a 20 anni. Dopo pochi minuti, un gruppo di persone in parterre iniziò a lamentarsi con il coach perché, appunto, mettesse in campo il biondino. Amore, troppo amore, fin da subito.

D'altronde, non è mai stato facile, per lui. Che si era affacciato alla prima squadra nell'anno di Finelli, e che nel 2010 riuscì ad essere messo a roster della cosiddetta Fortibudrio di Romagnoli, laddove di alternative agonistiche il possessore del suo cartellino, il Faraone Magno, non ne poteva dare. Diventando, per questo, all'epoca, una specie di simbolo della “resistenza” di chi aveva seguito il progetto della Casa Madre. Diciottenne con le spalle forse non abbastanza grosse per cotanta responsabilità, Montano si ritrovò poi ad essere, di punto in bianco, regista titolare di una squadra con mille problemi di identità, a dover gestire dopolavoristi (nel verso senso della parola, dato che in molti casi i giocatori di quella truppa di mattina avevano altre attività professionali) esperti e poco interessati alle luci dell'inevitabile ribalta di quel periodo. Risultato? Il capire subito che Montano poteva essere un ottimo incursore, capace di macinar punti da qualsiasi azione, ma non proprio il prototipo del playmaking. E che, soprattutto, aveva troppi occhi innamorati addosso.

Le dinamiche dell'araldica biancoblu lo portarono, poi, per due anni nella BBB, in A2: forse troppo presto per la sua esperienza, forse chissà, ma in entrambe le gestioni (Markovski prima e Salieri poi) le cose non andarono benissimo. E una impressione, strisciante, di conflitti tra chi avrebbe voluto vederlo in campo 41 minuti su 40, e allenatori che, per reazione, lo guardavano solo in caso di disperazione. E lui, che forse avrebbe meritato almeno una decina di minuti neutri, che andava in campo sapendo che qualsiasi cosa, una palla persa per eccesso di esuberanza così come un buon cesto, avrebbe avuto tanti, troppi riflettori.

Un anno di esilio napoletano, sempre come eredità delle questioni BBB, poi nel 2014 il ritorno a Bologna. Non scontato: due categorie sotto, ma almeno questa volta nella unigenita Fortitudo, senza se e senza ma. Una scelta tipo o la va o la spacca, avrebbe detto lui in seguito: fare il profeta in patria, e che patria, andandola a ripescare in B2. La scelta alla fine è andata: con Vandoni arrivarono le cifre ma non le vittorie di squadra, con Boniciolli il salto di qualità della doppia cifra facile di media ma anche, per fortuna, i risultati collettivi. E la promozione.

E una A2 assorbita senza particolari sofferenze, almeno all'inizio, per chi, come ha spesso ricordato Boniciolli, è stato preso perché non costava un affitto. Continuando a fare doppia cifra di media, continuando a cambiare le partite (in bene) uscendo dalla panchina e mettendo punti rapidi alla bisogna. Mantenendo però anche i suoi limiti: quelli fisici, perché non si può diventare l'incredibile Hulk da un giorno all'altro. E quelli tecnici, fatti di difesa non sempre garantita (anche se l'anno scorso, nei playoff, qualche exploit lo tirò fuori) e di una regia chiaramente non naturale. Oltre al problema, ripetuto da Boniciolli così come anche da suoi predecessori, di una “claque”, di un troppo amore, dite come volete, pronta a criticare, dal vivo o su social e su carta, qualsiasi cifra nella casella dei minuti ritenuta non soddisfacente. Tanto che, lo stesso coach, alla sua maniera, spiegò che avrebbe fatto bene a cambiare aria, Matteo (Montano), ma che Ravenna sarebbe stata comunque troppo vicina a casa.

Sarà poi il tempo, come giusto, a sopire eventuali incomprensioni (evitiamo di definirli dissidi o peggio) forse inevitabili nei rapporti a lunga scadenza. Il pubblico è giusto che saluti con i migliori festeggiamenti un ragazzo prima di tutto di gran fosforo – la laurea lo dimostra – e che, a suo modo, in Fortitudo ha dato tanto. Non avrà fatto la Storia con la S maiuscola come i Basile e gli altri idoli della sua stessa infanzia. Ma la storia, nel suo piccolo, degli anni recenti, quella eccome: d'altronde, se in questi giorni lo stanno intervistando tutti, un motivo ci sarà. E se poi dovessero un giorno essere di nuovo rose, rifioriranno. Chissà.

Di seguito un'altra intervista a Matteo Montano, realizzata da Alessio De Giuseppe per èTV.



(foto Pierfrancesco Accardo)

CARRARETTO: MCCAMEY E FULTZ SONO COMPLEMENTARI, E UN LUSSO PER LA CATEGORIA
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