Il dover lasciare spazio ai protagonisti ha portato al sacrificio della parte introduttiva del libro. Quella che raccontava cosa fosse il basket, e l'ambiente, degli anni raccontati. Ve la proponiamo qua, augurandoci che possa essere un buon incentivo all'acquisto.. EF

1. La Fortitudo di John: perché?

1.1 – Un brutto anatroccolo, ma mica tanto brutto.


Si andasse a fare un sondaggio tra i tifosi Fortitudo riguardo la squadra o il periodo storico che hanno amato di più, ci sarebbe di che divertirsi. Quando le vacche erano grasse, grassissime, si racconta di sfide sui forum internet tra la nouvelle vague, ovvero quei giovani che si erano avvicinati al biancoblu sulla scia dei risultati positivi e che avevano nei Myers e simili i propri idoli, e gli old style, che gongolavano al pensiero di tempi ben diversi. Eppure, anche precedentemente all’era Seragnoli, era difficile raccontare quale potesse essere la Fortitudo più amata, o semplicemente quella che più avesse fatto balzare i cuori della propria gente. Di certo, un bel po’ di gente è rimasta aggrappata, metaforicamente ma non solo, a quella foto diventata una icona dei tempi antichi: quel Gary Schull portato in trionfo, dopo un derby, che sulle guance aveva quella bella mistura di lacrime e sangue che sembrava essere stata ideata ad hoc per il mondo fortitudino. Un santino da portare nel portafoglio, un poster che era anche un trofeo, in attesa di poter vivere di altri flash come il Myers di Coppa Italia, o il muro di folla a Treviso nel 2000 o, più facilmente, l’attimo in cui al Forum di Milano, 2005, Ruben Douglas scagliò da duecento metri la tripla del secondo scudetto. Anche l’ultima azione di una certa Fortitudo è stata immortalata per diventare un’immagine indimenticabile, Malaventura a Forlì nel 2010. Beh, tutta la iconografia fortitudina, se vogliamo, nasce da quello Schull grondante di tanti, tanti anni fa.
Poi, c’è stata la Alco di fine anni ’70, quella di Carlos Rafaelli e di Genova, e di quel nefasto arbitro francese – Mainini, ad imperituro scorno – che con il beneplacito della FIBA scippò la allora Alco di una Coppa Korac. Ricordate? Aprile 1977, quando la Fortitudo fu decapitata con una sentenza che privò la squadra allenata da John McMillen dell’oriundo Carlos Rafaelli proprio alla vigilia del match contro la Jugoplastika Spalato. Terminò 87-84, e dove non arrivò la FIBA ci pensò appunto Mainini, a cui mancò solo di tagliare la retina per suggellare il trionfo slavo a cui tanto aveva dato una mano anche lui, protagonista imprevisto e indesiderato.
Dopodiche, nei cuori della popolazione è rimasto il duo Marcelous Starks – Charles Jordan, i due americanoni che traghettarono la Fortitudo tra i seventies e gli eighties. Il primo a macinar rimbalzi su rimbalzi, il secondo a far canestro da ogni posizione: anni di dignitosa A1, con qualche exploit stracittadino (ma anche solenni bruciature, come i famosi 4” secondi di azione che, lunghi come una messa cantata, permisero a Villalta una parità allo scadere dei 40 minuti) e tanto, tanto spettacolo.
Per ultimo ma non per ultimo, rimane il ricordo forte di altri momenti forti: Mauro Di Vincenzo e la sua truppa che trentaduellò nel derby del Grande Freddo non prima del 2-0 playoff, e le emozioni tesissime delle salvezze di Cremona e di Reggio Emilia, le ultime cene a base di pane e salame prima di andare con il caviale seragnolesco.
Eppure, nella narrazione manca un pezzo, no? Ed è qui che, forse, è il caso di posizionare per un po’ i nostri riflettori e raccontare quattro anni di storia non sempre apprezzati come sarebbe giusto fare.
Perché dal 1983 al 1987 in campo è scesa una Fortitudo forse povera di tante cose che sarebbero arrivate in seguito, e che la storia avrebbe poi descritto come un ascensore per cui la A1 era troppo larga e la A2 troppo stretta. Un racconto fatto di promozioni facili e retrocessioni immediate, ma anche di tanto, tanto sale in zucca. Di una società che dopo qualche problema iniziale decise di non far mai saltare la panchina di Andrea Sassoli, a cui va il record di essere retrocesso due volte con la stessa squadra senza mai, però, sentirsi in dubbio o con le spalle al muro. Di un gruppo di giocatori che rimase quasi intatto dal primo all’ultimo giorno, a parte quelle cessioni inevitabili per far quadrare il bilancio e per far mettere sul tavolo primo e secondo a pranzo senza doversi preoccupare della cena. Di uno sponsor che restò fedele anche se non sempre i risultati arrivavano (anzi, nella massima serie proprio non ne volevano sapere, di arrivare). Qui, avrete capito, si parla della Fortitudo Bologna, griffata Yoga, che in quei quattro anni seguì per filo e per segno le regole di Mogol-Battisti, ovvero discese ardite e successive risalite.


1.2. – Fieri di essere Fortitudo, senza se e senza ma.

Intanto, era una Fortitudo che – orrore, per chi non lo sapeva – non era biancoblu. Ma come, si chiederanno i giovincelli abituati a quel coro bianco…blu! che si dipanava in Azzarita da una curva all’altra, non c’erano i colori storici? Assolutamente no. Era una Fortitudo che, in virtù del potere che allora avevano gli sponsor, soprattutto in trasferta di blu aveva ben poco, e che sfoggiava delle canotte rosse. Non era nemmeno assurdo, all’epoca, tanto che qualche anno prima, se si fosse entrati al Palasport durante una partita della Effe, si sarebbero visti tanti stendardi biancoverdi di fronte ad una squadra che lo sponsor Latte Sole vestì, appunto, di biancoverde. Si sarebbe dovuto aspettare l’anno di grazia 1988-89, il marchio Arimo, per battezzare il bianco casalingo e il blu di trasferta che ci ha poi accompagnato fino ai nostri giorni: il rosso avrebbe avuto come ultimo sfoggio un quarto di finale a Cantù, nel 1988. Prima, come detto, i cromatismi dipendevano da altre faccende.
E non era nemmeno una Fortitudo che avesse sulle proprie canotte il famoso marchio della Effe scudata con aquila sul bordo superiore, quello che tutti noi conosciamo e che nei tempi più recenti è diventato motivo di contendere tra tanti, troppi soggetti. Quando una Effe era presente, la si poteva vedere quasi stilizzata, dentro uno scudo che sembrava disegnato a mano – o meglio, cucito su canotte che ad indossarle, oggi, farebbero sudare al solo pensiero – sul lato sinistro dell’uniforme. Nessuno se ne preoccupava, però. Perché quella era la Fortitudo, punto e basta.
E, udite udite, non era una Fortitudo che puntasse a primati cittadini o altre cose: la Virtus era di un altro piano, vinceva lo scudetto della stella nel 1984 e negli anni successivi – senza mai nemmeno avvicinarcisi, a dir la verità – continuò a riprovarci. Nessuno in casa biancoblu (è stato appena raccontato che non era biancoblu, quella casa, ma vabbè) pensava di poter fare dei faccia a faccia con i cugini in bianco e nero, e l’unica gioia era quella di poter arrivare al derby e di uscirne vincenti. Tanto che molti osservatori dell’epoca criticavano questo strano modo di ragionare della Bologna meno ricca: anche retrocessi, pur che si vinca il derby, sembrava essere il motto della casa. Ma in San Felice non era un problema, e la platea non aveva nessuna vergogna a dire di tifare per chi, senza se e senza ma, era Bologna Due. Maurizio Gentilomi, firma di Superbasket, un giorno vergò un commento che sarebbe diventato l’intestazione di tutte le fanzine della Fossa da quel giorno in poi: “…La Fossa, tacciata di smisurato fanatismo ma tremendamente chiassosa per tutti i 40 minuti anche e soprattutto quando la squadra del cuore è in difficoltà. Una città divisa per amore del basket, due modi diversi di vivere un incontro, da una parte molti giovanissimi parecchio esagitati e tanto cuore, dall’altra gli insostituibili borghesi o pseudo tali che lesinano l’applauso per non scomporsi l’ultima novità di Gianni Versace. La crisi bianconera è accompagnata da una crisi di valori da parte di un pubblico che da tempo non si rinnova ed è troppo rinunciatario per essere utile quando la squadra ha bisogno di sostegno e calore: non basta chiamare per nome i propri beniamini per sentirsi fedelisimi. Ci vuole ben altro: qualcosa che oggi si ritrova unicamente nei ragazzi di fede Fortitudo”. Ecco, si tifava per il gusto di essere e non certo per il gusto di avere, in una Bologna che era divisa ma non divissima. E lo provava il fatto che, durante le partite interne della Fortitudo, ogni tanto – anticipato da uno stacchetto musicale dello sponsor, il famoso “la Banca del Monte di Bologna e Ravenna vi offre…” – la gente veniva aggiornata sul risultato esterno della Virtus. Incredibile a raccontarsi, ma fosse vittoria o sconfitta quella che era annunciata, metà del Palasport festeggiava: c’era ancora tanta gente, all’epoca, che tifava per entrambe. Al massimo si poteva storcere il naso quando la radio locale che trasmetteva le partite in diretta (Nettuno Onda Libera) di tutte e due le squadre indugiava fin troppo sulla Virtus, lasciando alla Fortitudo solo qualche rapido commento con la preghiera di essere rapidi e concisi: ubi maior minor cessat, avrebbero detto i padri latini, ma così andavano le cose.
Insomma: era una Fortitudo orgogliosa di quello che era, che non si vergognava di retrocedere e che sperava sempre in futuro più solido e radioso, ma senza mai pretendere più di quanto il piatto offrisse. E che aveva, a mò di faro d’Alessandria a far da guida, un folletto di nome John Douglas, che venne presto raggiunto dal fratello Leon.


1.3 – Una Bologna a stelle e strisce.

La Bologna di quegli anni ’80, sportivamente parlando, sembrava andare al contrario. Tutto, forse, nacque dal crollo del calcio: mai retrocessa dalla serie A nel marzo 1982, a dover preparare diciotto mesi dopo una trasferta a Lodi contro il Fanfulla. La peggior crisi mai assaggiata dalla palla pedata rossoblu, che ancora nel maggio 1982 batteva 3-1 in casa l’Inter sperando di potersi salvare all’ultimo filo d’erba come in altre occasioni, ma che poi venne bideclassata fino alla C1 del 1983-84. Certo, c’era tanta gente a vedere il 4-1 con cui il Bologna di Giancarlo Cadè fece esordire la terza categoria al Comunale, ma non si poteva negare che, se si cercavano soddisfazioni, serviva il lanternino e tanta, tanta voglia di andare a bussare ad altri sport. E, guarda caso, alcune discipline ottennero proprio in quegli anni di esilio calcistico i migliori risultati della propria storia. In Azzarita, ad esempio, il sabato pomeriggio migliaia di teenagers si riunivano per festeggiare le schiacciate di John Barrett e Stelio De Rocco, inediti eroi di una pallavolo che prima mai aveva fatto innamorare di sé la Dotta, ma che grazie alla Zinella rese il capoluogo una valida concorrente allo strapotere emiliano di Modena e Parma. Una Coppa Italia nel 1984, lo scudetto nel 1985 e la Coppa delle Coppe nel 1987, fuoco d’artificio che esplose ed implose senza avere la possibilità di scavalcare la fine del decennio. Andando verso San Lazzaro e al Gianni Falchi, anche il baseball in quei giorni diede da godere e nemmeno poco: vero che la Fortitudo della mazza e del guantone era già abituata ai trionfi (4 scudetti, una Coppa Italia e una Coppa dei Campioni tra il 1969 e il 1980), ma l’occasione venne colta al volo, e la tripleta Scudetto-Coppa Italia-Europa arrivò, spalmata tra il 1982 e il 1985, prima di un lunghissimo letargo. Ma, soprattutto, quelli erano anni di football americano. Sport apparso come meteora in città sulla scia della moda televisiva NFL, che fece diventare la Lunetta Gamberini un tempio del fotbàl riconosciuto da tutta Italia. Anni di derby tra Warriors e Doves, che cozzavano i propri caschi e le proprie spalliere ai massimi livelli nazionali, di pienoni che nulla avevano da invidiare a quelli della palla al cesto. E di scudetti: i Doves fecero bingo nel 1985, i Warriors – davanti ai ventimila del Dall’Ara – risposero l’anno dopo. Anche qui, nemmeno il tempo di registrare le vittorie che la mania svanì, veloce come era arrivata: la fusione tra le due squadre nel 1990, anni di buio prima di riprovare la rinascita, ma con cifre ed interesse ben diverse, di recente.
Il basket, però, di questi problemi non ne aveva mai avuti, anche se qualcosa era cambiato rispetto alla fine del decennio con il sette davanti. Quando alla Virtus, realtà unica e indiscussa del panorama cittadino, e alla rampante Fortitudo di Beppe Lamberti, si era aggiunto (ri-aggiunto, andrebbe detto) il Gira. Bologna qualche anno prima aveva tre squadre in serie A, con i gialloneri a giocare di sabato e a cercar, così come la Effe, di procacciarsi le simpatie di chi proprio il bianconero non lo riusciva a digerire. L’avventura durò poco tempo, tanto per capire che va bene parlare di Bologna Caput Mundi nella pallacanestro, ma senza esagerare. E allora, di fronte alla V nera dell’Avvocato Porelli, che riempiva il Palazzarita già in abbonamento e che aveva fatto diventare la pallacanestro una specie di status symbol più che una vera e propria passione, era rimasta solo la Fortitudo. Con i suoi orizzonti limitati, con il proprio sapere di non poter competere ad altissimo livello, ma con cuore e muscoli pronti ad andare oltre le proprie possibilità.


1.4 – Comanda Aldo Giordani.

La pallacanestro di metà anni ’80, per i nostalgici, era qualcosa che oggi sembrerebbe quasi impossibile da raccontare. Giorni in cui l’NBA era roba soprattutto per televisioni commerciali e per videogiochi (l’epico Dr. J & Larry Bird go one on one, con tanto di custode a borbottare ogni volta che si rompeva il tabellone), ma che per i giocatori europei era vista lontana, tanto lontana. Qualcuno poteva anche arrivarci, ma dopo tanti anni di college e di sofferenza per superare i pregiudizi di chi era convinto in Europa – ma anche nel resto del mondo fuori dagli States – il basket nemmeno esistesse. E gioivano i club europei, che potevano firmare grandi stelle veterane a cui interessava giocare, tirar su qualche denaro in più e vedere oltreconfine. Era una pallacanestro dove si potevano crescere i giovani dando loro spazio quando ancora non c’era l’età per la patente, e non c’erano talent scout pronti a parlare di draft anche solo davanti ad un sedicenne capace di schiacciare in qualche palestrina sperduta. In Italia stava decadendo il potere lombardo: cresceva Pesaro, Roma era appena arrivata al tetto d’Europa e la Virtus ci provava un anno sì e uno anche. Le squadre erano fatte di un quintetto inamovibile e di poche riserve, una per settore: un piccolo che facesse regia e guardia, un lungo che facesse in lungo, magari uno specialista della difesa o un jolly, e due scaldapanchina che non entravano nemmeno sotto tortura. In campo, palla in area o al tiratore da fuori, gioco veloce, pochi fronzoli, punteggi sovente a tre cifre e americani a far grandi bottini con attorno, però, italiani capaci di star loro dietro. Squadre che non venivano cambiate ogni settimana, stranieri che spesso e volentieri si affezionavano ai propri club restando per più stagioni, e roster che diventavano poesie da imparare a memoria sapendo che di cambiamenti, in estate, ce ne sarebbero stati pochi. Tanti i giocatori bandiera, quindi, non solo per i grandi club ma anche per quelle che nel calcio verrebbero definite provinciali: fotografie sbiadite nel tempo, oggi che si parla di platoon system, di turnover e di altri affaracci del genere. L’Italia era al vertice delle gerarchie europee, aveva appena vinto l’Europeo di Nantes (1983) e ogni anno provava a portarsi a casa la Coppa dei Campioni, da giocarsi con i soliti noti – sovietici, spagnoli, israeliani – e con avversari che, incontrati mille e mille volte, ad un certo punto diventavano quasi amici. Giravano soldi ma non miliardoni, e difficilmente le squadre arrivavano a far bancarotta o altre nefandezze tipiche del terzo millennio. E si andava in tv quando capitava, al mercoledì sera se c’erano le coppe o al sabato pomeriggio quando la Rai si degnava di accendere una telecamera su un qualche campo dove la partita era già iniziata: si irradiava solo il secondo tempo, e guai a fare il supplementare, perché il rischio di sentire il tragico “linea alla regia” e di dover solo immaginare il finale era forte. Dal basket però trovarono linfa tante emittenti locali, che seppero unirsi allo storico “Tuttobasket” della Rai per offrire ai tifosi di ogni piazza, piccola o grande che fosse, un servizio che teneva attaccate alle radioline tante orecchie, non sempre censite da chi credeva che solo il calcio fosse sport aggregante per la società. Senza televideo, senza internet, spesso l’unico modo per sapere i risultati era aspettare la tarda serata, quando alla Domenica Sportiva Aldo Giordani raccontava la giornata di campionato, o rinviare tutto alla lettura dei quotidiani alla mattina successiva. Ovvio e chiaro che a Bologna tutto veniva amplificato, perché la città trasudava basket già dagli anni ’50 e, l’aver trovato una solida e continuativa avversaria della Virtus – dopo i tanti tentativi di svariate realtà, Gira in primis, in passato – aveva reso l’aria ancora più frizzante, e bastava soltanto camminare attorno a via San Felice e via Lame per capire che quella era zona di pallacanestro. Ogni bar mostrava i suoi gagliardetti o i suoi poster con la formazione, V o F a scelta, tutta in fila a salutare i clienti, che potevano poi di par loro scegliere se essere serviti con di fronte il faccione di Villalta o quello di Iacopini, in zona Lame faceva (e fa) bella mostra un negozio di calzature con misure solo – o quasi – per giocatori di basket, e adesivi di questa o quella fede comparivano su tutti i muri. Tempi in cui Azzarita poteva far tranquillamente da indiscutibile nido sia per i virtussini che per i fortitudini, ecco.

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