“Sei bellissimo”, gli gridava la Fossa quando saliva le scalette del Paladozza per mettersi a guardare la ruota della Effe. A lui inizialmente andò anche bene, poi fece capire che, insomma, si poteva anche soprassedere. “Se a lui non piace cantatelo a me, io non mi offendo, anzi” avrebbe chiosato Renzo Ulivieri, in diretta dal Dall’Ara. Sergio Scariolo arrivò in Fortitudo nella curiosa situazione di chi aveva già vinto uno scudetto, al suo esordio da capo allenatore (1990, Pesaro), ma di chi poi si era ritrovato dopo poco in A2, a Desio. Con lui, la Effe ha passato tre anni in una infinita cavalcata, chiusasi – d’altra parte è nel DNA del sodalizio – con la fiaba che non ha il lieto fine.

Dal -6 di partenza alla finale scudetto con Milano, dal difficile rapporto con Esposito degli inizi al primo anno di Myers in biancoblu, dalla paura di non farcela a salvarsi il primo anno fino all’esordio in Eurolega. Scariolo ha preso per mano la Fortitudo ancora in estasi per il tre secondi di Israel lanciandola poi ai vertici del basket italiano e non solo, diventando simbolo e condottiero di chi si sentiva comunque poco amato dal gotha della pallacanestro. Che già aveva la Virtus che vinceva sempre, e poteva mai accettare che anche la fino a quel momento simpatica ma innocua Fortitudo diventasse importante?

Una prima stagione a far da paciere tra Vincenzino O’Pazzo e il resto del mondo, e a cercare una quadratura a quella strana coppia di lunghi, Gay-Comegys, che non pareva capace di giocare assieme senza pestarsi i piedi, ma che poi un modus vivendi lo trovò eccome, anzi. Con la qualificazione ai quarti di finale, tuonando contro l’allenatore di Trieste, Tanjevic, nella più classica delle guerre dialettiche per portarsi la famosa inerzia arbitrale dalla propria parte. Ci fu la qualificazione alla Korac, che pareva un miraggio per chi due anni prima rischiava la serie Z e dieci mesi prima era stato battezzato, al ritorno nella massima serie, con sei punti di rabbia, non di sconforto, come vergava uno striscione in parterre.

“Far giocare Pilutti da ala piccola è forse figlia del suo strabismo?”, scrisse il settimanale edito dal proprietario dell’altra squadra bolognese, e Scariolo non la prese benissimo. Sarebbero stati anni di silenzio stampa, e pure lui che disse “Sarò professionista, ma oggi sulla panchina Virtus non penso proprio che ci andrei”: nel 2002 cambiò legittimamente idea, prima che la V nera saltasse per aria permettendogli, quindi, di mantenere la promessa. Scariolo pareva il perfetto allenatore per una Fortitudo rampante ma non per questo restia a sporcarsi le mani e sudare per ottenere le sue vittorie, in un momento di metamorfosi tra l’ascensore che era stata e la big che voleva essere. Nel 1995 si fece un ulteriore passo in avanti, con Djordjevic ed Esposito a litigarsi ogni tanto il pallone ma con la semifinale. Poi, il 1996.

Nulla pareva poter scalfire l’amore tra lui e la piazza, in una stagione dove stavolta c’era da mediare tra le forti personalità di Sale Djordjevic e Carlton Myers, ma dove piano piano – pur con la delusione di Korac e la semifinale persa contro l’Efes – si fece un ulteriore passo verso la vetta. Con la finale, con Milano, e con quella impressione da un lato di essere davvero Alice nel Paese delle Meraviglie, per chi stava in coda all’apertura dei cancelli PER LA FINALE! quando di solito quell’ultimo atto veniva visto, in tv, spesso gufando inutilmente i cugini (mai, cit.). Dall’altro, la statistica diceva che contro Milano si erano vinte più o meno tutte le ultime sfide dirette, e che soprattutto non poteva finire diversamente che con la vittoria. Perché tutte le favole, tutte le favole, hanno il lieto fine, o no? No? Ah.

Sconfitto da Bodiroga e Blackman, il mondo Fortitudo reagì con fastidio a questa cacciata dall’Eden (“A Vitoria raggiunsi la prima finale della loro storia. La perdemmo, ma la gente era comunque felice. In Fortitudo, invece, lo stesso risultato venne vissuto come un dramma”, avrebbe detto) e in estate sappiamo come andarono le cose. Senza entrare nel merito – boccaccesco? – della questione Djordjevic-Crotty, fatto sta che si ripartì con i fucili puntati. Se la Fossa continuò a sostenerlo, da molte parti del Palasport partirono dei “Bresciano bastardo” non esattamente generosi. Crotty non era presentabile, e quella squadra era sì partita bene all’esordio di Eurolega, ma in campionato non si accettò l’idea di aver iniziato un po’ a rilento: cosa forse comprensibile per chi doveva digerire tanti cambiamenti, ma non per chi decise, dopo una sconfitta contro la debole Trieste dei 39 di Burtt, di far saltare la panchina. Si era 6-4 in Italia e in testa al gironcino eliminatorio di Eurolega.

“Il giorno dopo che ci siamo conosciuti la Fortitudo ha perso la finale. Il giorno dopo che ci siamo messi insieme la Fortitudo ha perso a Trieste. Non è che sia io a portare sfiga?”, così mi disse l’allora compagna, mentre la prima senza di lui, in Coppa (Dalmonte in panchina, e il discusso Cecco Vescovi, misteriosamente, a far cesti su cesti), vide la Fossa salutarlo con un ultimo coro, buona parte dei distinti a fischiare, e qualche sganassone reciproco venne promesso.

La storia di Scariolo dimostra che forse un attimo di pazienza sarebbe servita, forse. Lui, in campionato, contro la Fortitudo non ha più giocato. L’avrebbe affrontata in Eurolega, prima con il Real (quarti di finale 2001) e poi con Malaga. Quando c’era già stato il 2003, l’abboccamento con la Virtus, e quindi giudizio un po’ modificato. La curva prima finse di salutarlo, poi arrivò l’inevitabile, a quel punto, “Bastardo bianconero”. Ma chissà come sarebbero andate le cose nella storia Fortitudo, se tra il giugno e il novembre 1996 ci fosse stata un po’ più di pazienza e lucidità.

(FOTO IL FORTITUDINO)
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IL DERBY ALLA FORTITUDO 95-92