Mauro Di Vincenzo arrivò, o meglio tornò, nell’estate 1987. Tornò, perché era stato già in Fortitudo e anche in Virtus, per poi andare a fare bene a Livorno, sponda Pallacanestro e non Libertas. Sono due anni di esaltazioni e uno, quello finale, in cui nuovamente la carrozza tornò zucca senza però nessun principe a raccogliere scarpette e rimediare poi ai sortilegi del destino. Dopo l’ennesima retrocessione, Gambini pensò che fosse il caso di allungare il passo, sperando di non farlo più di quanto la gamba non permettesse, e oltre a chiudere con Andrea Sassoli modificò tante cose a vari livelli. Ecco quindi la firma con l’elegantissimo – anche se di solito la giacca volava in panchina al primo errore difensivo – Dottor Sottile, e una squadra che venne costruita con l’idea di salire subito (con due, e non più quattro, promozioni dirette) e di provare a scalare qualche gradino.

Il primo anno fu una sinfonia, per quanto devastante fosse quella Effe: per dire, in casa si fece 15-0 con una media di 98 fatti e 81 subiti. Tradotto: al Paladozza erano ventelli o quasi ad ogni uscita, con George Bucci libero da vincoli douglaseschi, con Albertazzi a fare i propri comodi, con Masetti che usciva dalla panchina e andava in doppia cifra nel tempo in cui si chiedeva all’omino del Billy il medesimo, e insomma, tutto facile. Fino all’apoteosi del derby-sorpasso, di fronte ad una Virtus in crisi esistenziale e con il solo alibi di un Brunamonti a mezzo servizio. Di Vincenzo era perfetto, per quella truppa d’assalto: una sua dichiarazione su Porelli mi sta antipatico lo portò alla squalifica per due giornate, ma anche l’anno dopo le cose andarono più che bene.

Con una Effe che provò ad accelerare ancora un po’, e che salutò – per scelte volontarie o imposte – il duo Bryant-Garnett (che detto così pare NBA di 15 anni dopo, in realtà erano Wallace e Bill) e che si buttò su Artis Gilmore. Ci fu qualche iniziale problematica di classifica, anche perché l’altro USA, Gene Banks, non era al meglio della condizione fisica. Poi, con l’arrivo di Vincent Askew (che sarebbe poi diventato croce e delizia di altre squadre che lo avrebbero firmato, con le sue fughe repentine nottetempo) la quadratura del cerchio, il +32 nel derby, e i quarti di finale dove forse, chissà, con un po’ più di convinzione sai mai se Livorno non la si sarebbe potuta battere.

Poi, anche qui, fine della festa: soldi in meno, squadra depauperata, e l’anno dopo fu un brusco risveglio, perché stavolta si era davvero sognato di aver svoltato. L’Arimo dell’anno dopo vestiva braghini lunghi fino al ginocchio, e forse erano davvero pigiami per come la squadra fosse capace di addormentarsi nei momenti in cui si doveva stare svegli. Poco assortita la coppia di lunghi Feitl-McNealy, troppo corta una squadra che batteva le grandi ma, sistematicamente, perdeva tutti gli spareggi per evitare i playout. Ci si mise anche la caduta del Muro di Berlino, che ebbe come conseguenza collaterale un congresso PCI che sfrattò la Effe dal Paladozza in una gara decisiva contro Milano. E il playout fu uno strazio, con lancio di uova e gente davvero disillusa. Anche se lo striscione gestiti da un ottico guidati da un cieco che apparve in parterre fu davvero troppo ingeneroso verso il duo Gambini-Di Vincenzo. Reo il primo di aver provato ad inseguire un sogno, e il secondo di essere rimasto fedele alla linea, benchè non ci fossero più le condizioni per garantire risultati.

Due, i ricordi successivi: Di Vincenzo nel 1990-91 tornò a Livorno, e c’era lui ad affrontare la Virtus (e batterla) proprio quando in bianconero ci fu il gettone di John Douglas. Vinse, e sapete chi c’era ad arbitrare quella gara? La coppia Reatto-Zancanella, che qualcosa nella storia Fortitudo dei ‘90s lo avrebbe scritto, dalla parte sbagliata.

Il secondo, molti anni dopo. Quando lui mi mandò, giustamente, a quel paese. Un redattore del giornale su cui scrivevo mi chiese di porgli una domanda davvero sciocca, io non ebbi la furbizia di inventarmi un qualcosa per non fargliela (lo dovevo chiamare in quanto, lui, procuratore di non ricordo chi), lo chiamai, obbedii agli ordini di scuderia e venni sfanculato. Aveva ragione lui.

(Foto Il Fortitudino)

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