Settima puntata della rubrica “Dual & Post Career”.

Il protagonista è Moreno Sfiligoi, classe 1962, ex giocatore che ha iniziato nella natia Gorizia (arrivando alla massima serie), proseguendo poi a Mestre, Verona (promosso in A2), Fortitudo Bologna (tornando in massima serie), Rimini (altra promozione in A2) e chiudendo a Gorizia, con un’altra promozione in A2.

Oggi Moreno è un consulente finanziario e segue anche la GIBA.

Questa è la nostra intervista.

Quando giocavi, ti è mai capitato di pensare al tuo post carriera?
«No, ma ricordo che pensavo ai miei amici che, mentre io facevo “la bella vita” dell’atleta, come si diceva dalle nostre parti, andavano in fabbrica o in ufficio. Ai tempi pensavo di essere un privilegiato, anche se mi ero sudato la mia condizione. Poi, passati i 30 anni, ho cominciato a guardarmi intorno per vedere cosa c’era di interessante. Anche perché io ho giocato a cavallo di due periodi storici. Ho iniziato con un tozzo di pane, poi arrivò Il Messaggero Roma, nel 1989, e tutto cambiò. Iniziammo a guadagnare qualche liretta: non da vivere di rendita, beninteso, ma si stava bene. Così io, che mi sposai presto e oggi ho due figli di 33 e 25 anni e sono felicemente nonno di due nipotini, iniziai a pensare al futuro».

Qual è stata – se c’è stata – la più importante lezione che hai imparato sui campi di basket e ti è poi servita nella vita?
«È una cosa che dico molto spesso a colleghi e amici: quando giochi, non giochi perché sei amico di qualcuno o hai ricevuto una spinta. Quando giochi ci sei tu. Questo è il bello dell’insegnamento dello sport in generale: le cose si guadagnano sul campo, lavorando. Non vengono regalate».

Quanto è stato difficile passare dalla pallacanestro al mondo del lavoro?
«Ho fatto tutto in un giorno: dal 30 giugno al primo luglio. Mi spiego meglio: ero tornato a Gorizia con un contratto importante, perché volevano andare in A2. Vincemmo il campionato e il patron, qualche mese prima della fine del torneo, mi disse che mi avrebbe dovuto dare meno soldi per l’anno successivo, dovendo ingaggiare altri giocatori. Io gli risposi che, al contrario, avrei meritato più soldi, visto che in partita ero decisivo. Le diversità di vedute rimasero tali e io fui categorico, dicendogli: se mi abbassi il contratto anche di una sola lira, io smetto. Lui mi abbassò il contratto e io smisi a 34 anni, il 30 giugno 1996, anche se probabilmente avrei potuto guadagnare bene ancora qualche anno. Invece entrai nel mio nuovo negozio il primo luglio 1996».

Nel giro di un giorno, da giocatore a commerciante?
«Durante l’ultimo inverno da atleta, trattai l’acquisto di una rivendita di giornali, tabacchi e giochi insieme alla mia compianta moglie. Ci sembrava una cosa solida, così la prendemmo e il giorno dopo il mio addio al basket ero già al lavoro. Il bello è che, per i primi due o tre anni, in molti mi chiedevano di tornare a giocare, ma ho sempre declinato l’invito. Certo, a volte ci ho pensato, perché avrei ancora potuto guadagnare anno buone cifre col basket, ma il vantaggio è stato essere entrato nel mondo del lavoro quando ero ancora giovane. E poi bisogna lasciare quando si è ancora in forma: io, nella mia ultima partita in A a Cantù, ho giocato 33 minuti marcando un campione NCAA e giocatore NBA come Thurl Bailey. Nessun rimpianto!».

La tua prima attività è stata subito quella giusta?
«Sì. Poi la mia compianta moglie si è ammalata nel 1997, quindi nel 2001 abbiamo dovuto vendere l’attività, contentissimi per come è andata e per le relazioni umane che ha prodotto. Quindi, grazie al contatto di Paolo Nobile, a margine di una partitella giocata a Udine, ho avuto la proposta da un altro amico di provare a diventare consulente finanziario. Pochi mesi dopo, mi hanno chiamato da Banca Generali e l’amico che mi aveva iniziato a questo nuovo lavoro mi ha consigliato di andare al colloquio, cogliendo l’occasione formativa di un grande gruppo. Così sono andato, entrando in una grande azienda, cresciuta moltissimo negli ultimi anni, bella, sana e nella quale lavoro piacevolmente, facendo gioco di squadra con il mio amico Cristian Ghirardo, anche lui ex atleta proveniente dal calcio».

Quali consigli ti senti di dare ai giocatori di oggi, in relazione alla gestione del loro post carriera?
«I tempi sono sicuramente diversi rispetto ai miei, ma alcune cose valgono al di là del tempo. La prima è studiare, perché serve! Faccio sempre l’esempio mio e di Michele Mian, che è uno dei miei più cari amici insieme a Davide Turel. Io zero partite in Nazionale, mentre Michele è arrivato alle Olimpiadi in Azzurro ed è laureato! Insomma: si può tranquillamente studiare e arrivare ad altissimo livello».

Che cosa provi, da ex giocatore, ad occuparti della gestione del risparmio dell’Associazione Giocatori?
«Un grande onore e una enorme responsabilità, perché sono stato uno di loro e so chi c’è dall’altra parte: ci sono famiglie da rispettare e tutelare. Nella mia gioventù, quando ero atleta a Verona e Bologna, sono anche stato consigliere della GIBA e ricordo che spesso mi interrogavo sulla gestione dei soldi. Per questo oggi so quanto è importante avere cura di una parte del frutto dei sacrifici dei lavoratori della pallacanestro».

Un tuo pensiero sul ruolo della GIBA?
«È fondamentale, perché più la GIBA è forte e più si può battere per un basket più solido e che quindi dia più garanzie. Perché bisogna avere condizioni sempre migliori e lavoratori più tutelati. E fanno bene anche i giocatori più famosi a spendersi per i diritti di tutti, anche se magari con i loro guadagni non ne avrebbero bisogno, perché senza la base non esisterebbero le stelle».

(foto Old Star Game di Trieste nel 2019)

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